I finanziamenti all'Isis, Gaza e il Kurdistan iracheno
Tempo di lettura: 5 minuti
Sulla Stampa del 15 agosto Maurizio Molinari, corrispondente da Gerusalemme del quotidiano torinese, ha riportato la notizia della denuncia di alcuni parlamentari turchi sugli aiuti che la Turchia fornisce all‘Isis. È dettagliato il pezzo e accenna a campi di addestramento Isis all’interno del territorio turco, a convogli senza insegne carichi di armi per gli jihadisti e via dicendo. La notizia aggiunge poco a quanto si sapeva: da tempo infatti è noto che la Turchia è uno degli sponsor dello jihadismo, sia direttamente che indirettamente, ovvero tramite il Qatar a cui è legato da vincoli di fratellanza; in particolare dalla comune appartenenza delle classi dirigenti dei due Paesi alla Fratellanza musulmana che nel piccolo emirato ha ancora base stabile nonostante sia in ritirata altrove (Egitto e Tunisia). Si sapeva che questi hanno sostenuto Al Nusra, però ora si scopre che avrebbe aiutato anche l’Isis.
E probabilmente è vero, ma forse la realtà è un po’ più complessa, come complesso e articolato è quello che sta accadendo in Medio Oriente.
In realtà l’Isis nasce in Iraq e il suo sponsor principale è l’Arabia Saudita, grazie all’intraprendenza del principe Bandar bin Sultan, l’attuale Osama bin Laden con licenza di uccidere, potente consigliere politico della monarchia del Golfo. L’Arabia Saudita è anche il capofila di altri munifici finanziatori del Golfo, primo fra tutti gli Emirati Arabi. Isis e Al Nusra sono due bande armate che nel tempo in Medio Oriente sono diventate egemoniche rispetto alle altre milizie islamiche di stampo radicale, andando anche in urto tra loro. L’Isis, che nasce nel crogiolo del conflitto intra-religioso seguito alla guerra del Golfo e in funzione anti-Assad, va a rafforzarsi in un momento ben preciso: quando gli Stati Uniti decidono di ridimensionare il ruolo del Qatar e puntano tutto sull’Arabia Saudita. Al ridimensionamento del Qatar segue quello di Al Nusra (che perde parte della sua potenza, ma che resta ancora adesso tragicamente attiva in Siria), e l’apertura di nuovi canali di finanziamento via Golfo verso l’attuale Califfato. La cui follia sanguinaria giunge al parossisomo quando diventa chiaro che il blitzkrieg contro Assad non dà i risultati sperati, ovvero dopo la riconquista da parte di Damasco di aree occupate dagli jihadisti e le elezioni siriane che confermano il consenso di Assad tra i suoi (meglio lui di altri hanno capito gli elettori). È allora che l’Isis tracima in Iraq e si proclama Califfato.
Certo le milizie si autofinanziano grazie ai furti (anche questo è il motivo della persecuzione contro i cristiani: vogliono i loro beni), ai rapimenti, ai traffici (di uomini, di droga e di organi) e alle risorse naturali che man mano cadono sotto il loro dominio. Ma non può bastare: le guerre costano tanto, così dall’esterno devono continuare ad affluire dollari su dollari.
Su tali finanziamenti agli jihadisti a volte si trovano ricostruzioni bizzarre su siti e giornali. Si accennano a finanziamenti via rete con tanto di raccolte di fondi in crowdfunding da parte di non ben precisati cittadini sauditi. In realtà ai miliziani vengono corrisposti almeno quattrocento dollari al mese, paga base cui si aggiungono straordinari e altro. Poi ci sono i costi dei vettovagliamenti, degli alloggi, delle armi, delle munizioni, dell’intelligence e tanto, tanto altro. Insomma, cifre spaventose: si parla di miliardi di dollari, non certo reperibili tramite semplici collette. Non che non esistano meccanismi del genere, spesso coperti da scopi umanitari, ma sono solo una piccola parte del necessario.
Alcuni giornali americani hanno accreditato la fola di connivenze tra Isis e Assad. Tesi davvero bislacca che vede Assad in combutta con i suoi carnefici. Solo nel luglio scorso l’Isis ha conquistato Shaer, sito strategico per le riserve di gas naturale siriano, l’ultimo colpo in Siria di una strategia che mira a ridurre Damasco alla “canna del gas”. C’è chi ha ipotizzato anche che Damasco compri il petrolio e il gas dell’Isis, tesi ancora più bislacca che vedrebbe il governo siriano lasciarsi strappare dai miliziani i ricchi giacimenti per poter poi comprare da loro quel che prima aveva più o meno gratis…
Insomma tante boutade che a volte escono in buona fede, altre volte per coprire una realtà un po’ losca che vede ambiti molto assertivi in Occidente, neocon e altri, in prima linea in questo progetto di ridisegnare il Medio oriente secondo linee di frattura religiosa: un divide et impera di tragica attualità. E che usa degli attori regionali per mettere in pratica suoi desiderata.
Quanto all’oro nero, anzi rosso sangue, che contribuisce a finanziare questa strategia del terrore abbiamo già accennato su Piccolenote. Aggiungiamo quanto si legge sul sito, al solito ben informato, Reseau Voltaire: «Il congresso mondiale annuale delle compagnie petrolifere si è svolto dal 15 al 19 Giugno a Mosca. Invece di parlare dell’Ucraina come si pensava, si è parlato dell’Iraq e della Siria. È uscito fuori che il petrolio rubato dal Fronte al-Nosra in Siria è venduto dalla Exxon-Mobil (la società dei Rockefeller che la fa da padrona in Qatar) mentre quello dell’EIIL [Isis ndr.] è gestito da Aramco (USA/Arabia Saudita)».
Una nota, anzi due note a margine merita la guerra di Gaza. Non si era ancora dissipato il fumo tragico che esalava da Gaza che l’Isis ha scatenato una nuova ondata di terrore in Iraq. Cristiani in fuga e yazidi allo stremo (una minoranza irachena del cui tragico destino non importava nulla a nessuno prima di oggi) sono le notizie che hanno iniziato a campeggiare sui giornali. La fiammata dell’Isis ha così distolto l’attenzione internazionale dalle macerie di Gaza. Una coincidenza infelice che non aiuta la risoluzione del conflitto tra Hamas e Israele. Senza l’attenzione internazionale i palestinesi si ritrovano un po’ più soli al tavolo dei negoziati con Israele, essendosi affievolito anche il tradizionale sostegno del mondo arabo che altre volte aveva favorito intese, seppur provvisorie. Questo anche il motivo per il quale le trattative per arrivare a una tregua sono più complesse e più precarie delle precedenti.
Infine, da segnalare che la tragedia di Gaza ha portato una novità nella geopolitica del Medio Oriente: la Turchia ha “approfittato” della finestra d’opportunità che le ha offerto questa guerra per provare a uscire dall’angolo nel quale l’aveva ricacciata il sostegno alla Fratellanza musulmana che le ha guadagnato l’ostilità del tradizionale mondo arabo. Il Qatar – ovvero la Fratellanza musulmana che vanta un qualche legame con Hamas – è stato il primo Paese a tentare una mediazione tra Israele e Hamas, entrando in dissidio sia con Israele che con i suoi vicini arabi. Oggi è l’Egitto a mediare, come è stato in altre circostanze, ma il protagonismo della Fratellanza, e quindi di Ankara, ha creato movimento in Medio oriente. Destinato ad accrescersi dopo le elezioni presidenziali turche che hanno visto il trionfo, non scontato fino a un anno fa, di Erdogan. Una vittoria che consegna nuove munizioni alla smisurata ambizione del neopresidente. Che tra l’altro, e con qualche ragione, vede con crescente preoccupazione la nascita di uno Stato curdo iracheno alle sue frontiere (tra l’altro sostenuto dall’Occidente: gli Usa hanno bombardato l’Iraq solo quando l’Isis ha iniziato a diventare una minaccia per il Kurdistan e la Ue ha appena deciso di armare questa entità locale…).
Qualcosa è cambiato in Medio Oriente, se in meglio o in peggio è ancora tutto da vedere.