Mia Madre e i finali di Moretti
Tempo di lettura: 4 minutiÈ piaciuto a tanti l’ultimo film di Nanni Moretti. Così abbiamo chiesto al nostro amico Paolo Mattei, che ama il cinema di Moretti, di poter ospitare una sua recensione di Mia Madre. Inviata, la pubblichiamo, nella speranza di far cosa gradita ai lettori ai quali consegnamo questa postilla cinematografica.
I finali memorabili e tristi dei film di Nanni Moretti. Dalla stanza in penombra di Ecce bombo, ospite caritatevole e silenziosa dell’incontro tra un ragazzo confuso e una ragazza ammalata, al monito «è triste morire senza figli», pronunciato con desolata rassegnazione dal protagonista assassino di Bianca un attimo prima d’essere portato in prigione da un furgone della polizia. Dal bicchiere d’acqua sorseggiato con gli occhi, più che con la bocca, nell’estremo primissimo piano di Caro Diario, sul sottofondo cantato da Fiorella Mannoia («… era la vita che già / avevo immaginato ma / diversa nel finale…»), al profilo del mar Ligure negli ultimi istanti della Stanza del figlio (e in questo caso a cantare è un malinconico Brian Eno che si chiede: «Dopo aver attraversato il giorno, / come se fossimo in un oceano, / stiamo aspettando qui, / sempre senza ricordare perché siamo venuti… / Mi domando perché siamo venuti…»).
Dall’“interno giorno” matrimoniale nella chiesetta della Messa è finita – in cui, sotto lo sguardo addolorato e sorridente del celebrante in procinto di partire per una parrocchia sperduta alla fine del mondo, coppie di vecchi amici danzano leggere sulle note di “Ritornerai”, struggente bolero interpretato da Bruno Lauzi – alle grandi tende rosse scosse dal vento di Roma sulla loggia di San Pietro abbandonata dal pontefice, eletto ma non proclamato, di Habemus Papam.
All’elenco ora va aggiunto il finale, pure memorabile e triste, di Mia madre. La pellicola del cineasta e attore romano, approdata da qualche giorno nelle sale italiane, narra la storia di una regista (l’ottima Margherita Buy) che divide le proprie giornate fra il set di un film in lavorazione e l’ospedale in cui è ricoverata la mamma gravemente ammalata (una bravissima Giulia Lazzarini). Intorno a Margherita (nome del personaggio e dell’attrice coincidono) ruotano le altre figure su cui si muove la vicenda: il fratello (lo stesso Nanni Moretti che le fa da discreto comprimario), l’attore americano, folle, vitalissimo e un po’ fanfarone, protagonista del film in produzione (un meraviglioso John Turturro), la figlia adolescente (Beatrice Mancini) e il marito da cui la donna si sta separando (Enrico Ianniello).
«Inadeguatezza» è la parola ricorrente negli articoli e nelle interviste con cui è stata presentata al pubblico l’ultima opera del regista. Inadeguata si sente Margherita, dietro cui si nasconde Moretti stesso, in questo ulteriore capitolo della sua ormai quasi quarantennale autobiografia cinematografica (connotazione, quella dell’autobiografia morettiana in pellicola, da molti giudicata negativamente: basti ricordare l’aforisma di Enrico Ghezzi, secondo cui «l’unica forma fondamentale, e in sé notevole, dei film di Nanni Moretti è la presenza di Nanni Moretti»; o la fulminante battuta di Dino Risi, che esortò il regista a «togliersi di mezzo» per fargli «vedere il film»…). Inadeguato si sente il bizzarro attore americano, che nell’acme di una delle sue tragicomiche sfuriate contro la troupe, grida il proprio disamore per il mondo del cinema: «Recitare è una perdita di tempo, voglio tornare nella realtà… Fatemi rientrare nella vita reale, voglio la realtà!».
Quella di Mia madre è l’inadeguatezza morettiana di sempre, che ha reso caro il regista a un sacco di gente. Caro anche a ragazzi nati trent’anni dopo il Sessantotto, che vanno a vedere i suoi film, in cui si piange e si ride anche grazie alla sua “presenza”. Si ama il suo cinema proprio perché l’ininterrotta narrazione che Moretti fa della propria inadeguatezza di fronte al mondo, sebbene volutamente, e ironicamente, carica delle peculiari idiosincrasie caratteriali, non scaturisce da tare personali o generazionali, come dicono alcuni. Moretti è riuscito, raccontando il proprio sentimento di insufficienza, di inidoneità, di incapacità («Tutto dipende da me… e se dipende da me, sono sicuro che non ce la farò», dice il protagonista di Caro Diario), a descrivere, tra risa e lacrime, qualcosa che appartiene a moltissime persone. Con il suo stile, riconoscibile e amato: trame disseminate di scintille “morettiane” che hanno mutato forma col tempo rimanendo comunque sostanzialmente e felicemente “morettiane”.
Mia madre è la storia semplice e disarmante di un dolore privato proiettato sugli schermi di tutta Italia proprio nei giorni in cui tragici dolori pubblici si consumano nel nostro Mediterraneo. Ma anche il dolore per la morte della madre è l’occasione per raccontare pubblicamente il senso della perdita, la sofferenza per qualcosa che viene a mancare, la percezione che sostanzia, appunto, la tristezza umana: un’assenza sofferta. Tra risa e lacrime – la leggerezza di Turturro che, senza volerlo, arriva a rompere gli schemi di Margherita, alle prese con la fatica quotidiana fatta di lavoro e affetti –, tra sogni e realtà, la storia di Mia madre giunge al finale. Il finale stavolta è una parola. E le parole sono importanti.
Quella parola è «domani». Margherita la immagina pronunciata dalla madre sul letto d’ospedale, in risposta a una sua domanda: «A cosa pensi, mamma?». «A domani». Inutile aggiungere altro. Se non che è una parola capace di rendere il finale del film in qualche modo “aperto”, nonostante la morte, nonostante le lacrime tristi di Margherita. Il cuore antico di «domani» – dal latino “mane”, “di mattina” – batte al ritmo di un significato che per alcuni etimologisti corrisponde al termine “buono”. Le parole sono importanti. E nel finale, bellissimo e triste, in fondo in fondo sembra non sia detta ancora l’ultima parola.