Seul e l'uomo della riconciliazione coreana
Tempo di lettura: 3 minutiMoon Jae-in è il nuovo presidente della Corea del Sud. Il candidato dei socialdemocratici vince contro una destra travolta dagli scandali, culminati con l’arresto della presidentessa-stregona Park Geun-hye (vedi Piccolenote).
Una vittoria auspicata dalla Cina, almeno a stare a quanto si leggeva sull’Agenzia di stampa Xinhua, in particolare attraverso l’analisi di Zhu Dongyang pubblicata prima del voto, nella quale il cronista spiegava quanto fosse necessario per Seul «il ritorno a una politica più costruttiva nei confronti di Pyongyang». Prospettiva incarnata appunto da Moon Jae-in.
In un articolo successivo, apparso sempre su Xinhua, Liu Chang tornava sul tema della necessità di un dialogo tra Nord e Sud Corea, riportando la contrarietà di Pechino all’installazione del sistema anti-missile americano Thaad nella Corea del Sud.
Un’iniziativa che «ha complicato la situazione nella penisola e in tutto il vasto nord-est asiatico», si legge su Xinhua, e che ha danneggiato non poco anche le relazioni tra Seul e Pechino.
Liu Chang ricorda però come il nuovo presidente abbia in passato criticato il Thaad, anche per l’enorme «onere finanziario» che esso comporta per Seul.
«Sembra che Moon voglia intrattenere anche migliori rapporti con la Cina», aggiunge Liu Chang citando una recente intervista rilasciata dal nuovo presidente al Washington Post, nella quale spiegava di voler «lavorare con Pechino per risolvere la questione nucleare nella penisola».
Insomma, questa elezione potrebbe portare un po’ di serenità in un’area che recentemente ha rischiato di far sprofondare il mondo in una guerra nucleare, e non solo per gli evidenti torti del giovane presidente della Corea del Nord, il minaccioso Kim Jong-un.
A questo proposito Zhu Dongyang ricordava la proposta cinese per chiudere la crisi coreana: «Pyongyang sospende il suo programma nucleare in cambio di una battuta d’arresto delle esercitazioni militari congiunte Stati Uniti-Corea del Sud». Proposta peraltro decennale, ricorda il cronista di Xinhua, e mai accolta dalla precedente leadership di Seul.
La prospettiva di un nuovo inizio tra Seul e Pyongyang potrebbe far rifiorire anche la speranza di una Corea indivisa, ma è davvero troppo presto per dare una qualche sostanza a quella che oggi appare solo un’utopia.
Anche perché i passi che Moon potrà fare per attutire le tensioni nella penisola dovranno esser negoziati e condivisi, stante che la sua capacità di manovra è limitata.
Lo spiega sulla Repubblica del 10 maggio anche Bryan Mayers, politologo della Busan University: «Se le sue politiche saranno troppo pro-Nord e anti-Usa rischia di mettersi nei guai nell’Assemblea nazionale», dal momento che «lì il suo partito non ha la maggioranza
».
Detto questo, non è detto che un eventuale riavvicinamento delle due Coree debba necessariamente suscitare la contrarietà di Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha affrontato la recente crisi coreana con grande pragmatismo, e ai toni minacciosi della prima fase ha fatto seguire una seconda molto più soft (fino ad affermare che, alle giuste condizioni, avrebbe considerato un onore incontrare Kim Jon-Un).
Il pragmatismo della nuova amministrazione americana anzi potrebbe facilitare il compito del nuovo presidente della Corea del Sud, peraltro considerato anche lui un uomo pragmatico.
Gli occorrerà coraggio, dal momento che sono tante le forze ostative alla riconciliazione tra Nord e Sud, non solo all’interno, ma anche all’estero. Influenti ambiti internazionali, infatti, urgono per far precipitare il confronto tra le due Coree.
Se ciò accadesse, la Cina si troverebbe implicata in una criticità di difficile gestione che ne frenerebbe lo sviluppo, percepito da tali ambiti come una minaccia (economica, finanziaria e geopolitica) alla loro egemonia globale.
Ma pare che Moon Jae-in di coraggio ne abbia in abbondanza. Lo dimostra il suo passato di oppositore che, negli anni bui della dittatura, gli fece conoscere le carceri di Seul.
Una storia personale che gli ha guadagnato i tanti consensi che lo hanno portato alla presidenza e che lo porta a guardare agli Stati Uniti come a un alleato necessario, al quale però Seul deve imparare anche a dire no, come ha esplicitato in un libro pubblicato di recente.