Regeni e la pace in Libia
Tempo di lettura: 4 minutiProprio nel giorno in cui l’Italia aveva deciso di riaprire i rapporti diplomatici con l’Egitto, facendo rientrare al Cairo l’ambasciatore ritirato per l’asserita mancanza di collaborazione delle autorità locali sull’omicidio di Giulio Regeni, il New York Times ha lanciato la bomba: l’amministrazione Obama avrebbe inviato in Italia una documentazione «inconfutabile» sulla responsabilità di importanti esponenti della sicurezza egiziana nell’assassinio del giovane ricercatore.
La tempistica della rivelazione dà la misura della strumentalizzazione di cui è oggetto la tragica morte di questo povero ragazzo. Una puntualità molto più che sospetta.
Tale rivelazione peraltro non è stata confermata dai nostri. Ed è sminuita anche da un responsabile dell’Aise intervistato oggi sulla Repubblica da Carlo Bonini, che pure si dice convinto delle responsabilità degli apparati di sicurezza egiziani.
In realtà, rivela la fonte di Bonini, gli americani non «indicarono nomi, circostanze di fatto o di luogo. E questo, dissero per non compromettere la fonte». Insomma, un’accusa più che generica, un assunto, non prove «inconfutabili» come riportato.
Netta l’impressione che chi ha fornito questa informazione, tardiva ma tempestiva, al giornale americano più che avere a cuore la sorte dell’inchiesta su Regeni volesse portare nocumento al passo diplomatico italiano verso l’Egitto, foriero di prospettive stabilizzanti per la Libia, con ricadute globali.
Infatti da alcuni giorni l’Italia è impegnata in un braccio di ferro con la Francia. Da quando Emmanuel Macron ha invitato a Parigi il primo ministro Fayez Serraj e il generale Khalīfa Haftar, espressione rispettivamente del governo di Tripoli, unico riconosciuto a livello internazionale, e di quello di Tobruk, che da tempo si contendono il destino della Libia in uno scontro senza esclusione di colpi.
Un vertice, quello parigino, che ha dato vita a un’intesa che in prospettiva può riportare il Paese alla pace. L’Italia, esclusa dall’accordo ma soprattutto dal destino futuro della Libia e dal suo petrolio, aveva rilanciato, chiedendo a Serraj, con il quale conserva legami importanti, di accettare che alcune delle nostre navi militari potessero pattugliare i mari libici per aiutare il governo di Tripoli a frenare il flusso di migranti.
Un’iniziativa che aveva urtato non poco Haftar, per il quale l’attivismo italiano nascondeva ben altre mire, ovvero la volontà di rimanere un attore protagonista del destino libico, a tutto vantaggio del suo avversario. Ne era nata una querelle che avrebbe potuto mandare all’aria lo stolido attivismo italiano (davvero qualcuno aveva pensato di potersi imporre su Haftar senza suscitarne la reazione?).
Una situazione che rischiava di diventare più che critica. Da qui la mossa italiana di far tornare al Cairo il nostro ambasciatore. Un’iniziativa che aveva tanti scopi, non ultimo quello di non perdere il treno dello sfruttamento dell’immenso giacimento di petrolio scoperto dall’Eni al largo delle coste egiziane. Ma lo scopo primario della mossa di Roma, come indica la cronologia degli eventi, era quello di avviare trattative col Cairo sulla sorte della Libia.
Il presidente al Sisi, infatti, è il più importante sponsor del generale Haftar, che ritiene l’unico baluardo al dilagare del caos libico oltre la frontiera egiziana. Un passo distensivo, dunque, quello italiano, foriero di possibilità di stabilizzazione per la LIbia.
Ii dialogo tra l’Italia e il Cairo avrebbe come effetto di includere l’Italia nel percorso di riconciliazione della Libia avviato a Parigi. Macron, infatti, avrebbe tutto l’interesse a includere Roma in tale percorso.
Al di là degli aneliti propri della grandeur francese che il presidente transalpino vuole incarnare, sa che l’Italia in Libia ha un ruolo rilevante. E che la sua opposizione ai disegni francesi potrebbe procurargli non pochi fastidi.
Peraltro Macron è sì interessato al petrolio libico, ma è molto più interessato a stabilizzare il Paese, dal momento che il caos di cui è preda da anni provoca scosse telluriche all’intorno, ovvero nei Paesi africani che conservano solidi e fecondi legami con la Francia.
Insomma, Macron potrebbe accettare l’ipotesi che l’Italia sia inclusa nel processo di stabilizzazione libico, cosa che peraltro aumenterebbe le possibilità di successo di un cammino irto di ostacoli (tante e diverse le forze ostative). Dovrebbe concedere qualcosa, anzi molto, all’Italia, ovvio, soprattutto rinunciare a quel ruolo di dominus che si era ritagliato, ma si può fare.
Tanto più che proprio negli ultimi giorni la Francia ha visto adombrarsi il ritorno dell’incubo terrorista, che tanto ha imperversato sul suo suolo, cosa che ha reso più stringente la prospettiva di creare un’aera di stabilità nel Mediterraneo.
Insomma l’iniziativa diplomatica italiana verso l’Egitto era un passo nella direzione giusta e la “tempestiva” rivelazione del New York Times rischia di far saltare tutto. Probabile che a passare la “dritta” al giornale americano sia stato qualcuno interessato proprio a quest’ultimo aspetto.
Infatti, convitato di pietra del processo di stabilizzazione libico è Vladimir Putin: la Russia infatti, dopo aver ospitato alcuni giorni fa Haftar, è intenzionata a ospitare un prossimo vertice tra il generale e al Serraj.
Forti e influenti sono in America gli ambiti che cercano di ostacolare la Russia, considerata nemico irriducibile. Tra questi, tanti reduci della vecchia amministrazione Obama, tra i quali forse si nasconde la fonte del NYT.
Tali ambiti non possono accettare che a Putin possa accreditarsi il merito di aver favorito un’eventuale riconciliazione libica. Soprattutto non dopo lo scacco subito in Siria, dove i progetti occidentali per ottenere un regime-change sono stati vanificati da Mosca, il cui intervento militare ha messo alle corde i tagliagole jihadisti che hanno macellato un intero popolo.
In questa nota non ci siamo soffermati sull’omicidio di Giulio Regeni, che merita doverosa attenzione, perché ne abbiamo scritto in passato, accennando alle tante ombre sulle rivelazioni pregresse e all’inaccettabile omertà che gli inquirenti italiani hanno incontrato a Cambridge, Università britannica presso la quale Giulio svolgeva il suo servizio (vedi Piccolenote). Un’omertà che non sembra suscitare l’interesse in quanti chiedono all’Egitto “Verità per Regeni”.
Ad oggi non ci sono elementi che indichino chiare responsabilità, ma è più che chiara la strumentalizzazione dell’oscura vicenda, che oltre che minare nel profondo la politica estera dell’Italia nel Mediterraneo, che rischia l’irrilevanza, reca oltraggio alla memoria del povero ricercatore.