E se Trump ritira davvero le truppe dalla Siria?
Tempo di lettura: 3 minutiL’intenzione di Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria prende consistenza. Tanto che il suo annuncio in Ohio ha avuto un seguito operativo. Il Washington Post, infatti, riferisce che martedì il presidente ha avuto un incontro sul tema con i suoi assistenti.
Trump frenato, ma non troppo
Ai suoi interlocutori deve aver ribadito quanto detto nella conferenza stampa di martedì, sintetizzata così da Weekley Standard: “gli Stati Uniti non hanno ottenuto ‘niente’ dalle varie missioni in Medio Oriente, dall’Afghanistan alla Siria”.
Guerre che pure hanno dilapidato inutilmente trilioni di dollari. È ora che i soldi vengano investiti in maniera più proficua, per supportare l’economia americana, ha aggiunto.
L’Isis è ormai vinto, è ora di far tornare le truppe. Anche perché “gli obiettivi strategici statunitensi in Siria”, avrebbe detto nella riunione riferita dal WP, “non includono la stabilità a lungo termine o gli sforzi per avviare la ricostruzione”.
A quanto pare i suoi interlocutori gli hanno fatto presente le difficoltà di un ritiro immediato: lascerebbe un vuoto pericoloso, che potrebbe essere riempito di nuovo da milizie terroriste, gli hanno detto, come accadde con il ritiro voluto da Obama.
Il presidente avrebbe accolto le riserve, tanto che, riferisce il WP, avrebbe fatto una retromarcia. Il ritiro dunque non sarebbe più “imminente”, come da annuncio.
Una retromarcia, però, a metà. Il presidente, infatti, è rimasto fermo sulla necessità del ritiro, accogliendo la proposta di riempire quel vuoto con milizie locali addestrate dagli americani, che avrebbero il compito di garantire stabilità e sicurezza nelle aree della Siria attualmente controllate dagli Usa.
Però a sostenere il costo di tali milizie devono essere altri, ovvero gli alleati regionali della coalizione anti-Isis, in particolare Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. I quali, “se necessario”, potrebbero rafforzare il contingente con “proprie truppe”, come ha detto in conferenza stampa.
Non solo. Anche se la tempistica del ritiro americano è stata dilazionata, Trump è stato categorico: dal momento che i suoi consiglieri hanno concordato sul fatto che per fare quanto richiesto “ci vorranno mesi, non anni”, ha detto loro che non voleva intraprendere un’analoga conversazione “tra sei mesi o più da adesso”.
Da ciò discende che la riunione ha avuto un esito operativo: la decisione sul ritiro è ormai presa ed entro sei mesi va resa operativa o addirittura portata a compimento. Sul punto il report del WP non offre ulteriori delucidazioni.
Quella di Trump è una svolta. Porta a compimento il disimpegno dal Medio oriente, come da promesse elettorali, per destinare maggiori risorse all’economia americana.
L’irritazione di Netanyahu
Per quanto riguarda il destino del Medio oriente, però, potrebbe apparire un semplice cambio di guardia, dagli americani ad altri, senza nessun effetto pratico sul magmatico conflitto che lo dilania.
Ma è davvero così? Il primo ministro israeliano Netanyahu agli inizi di marzo è stato negli Stati Uniti per una lunga visita (cinque giorni). Scopo dichiarato: convincere l’alleato d’oltreoceano a un ingaggio più diretto in Medio oriente in funzione anti-Iran.
Evidentemente la mossa di Trump non va in quella direzione. Tanto che ieri Netanyahu ha alzato la cornetta per un chiarimento diretto con il presidente americano. Pare che la conversazione tra i due sia stata “tesa”, come riferisce il Timesofisrael.
Il premier israeliano evidentemente non solo non si aspettava la mossa, ma è più che contrariato. Trump non ha fatto quanto da lui richiesto e rivenduto in patria per rinverdire consensi che l’inchiesta giudiziaria che lo perseguita hanno raffreddato. Anzi.
Il suo progetto per contrastare l’influenza iraniana deve essere rivisto in maniera più che significativa. E rischia addirittura di svaporare.
La mossa di Trump (sempre che vada in porto) ha infatti implicazioni più che significative. Le dedicheremo un’altra nota per non allungare oltremodo questa.