Requiem per Khashoggi
Tempo di lettura: 3 minutiIl caso Khashoggi, il giornalista saudita dissidente scomparso dopo una visita al consolato di Ryad a Istanbul, va a chiudersi. Fonti americane riferiscono che i sauditi, dopo i tanti dinieghi, sono pronti ad ammettere che l’uomo è stato ucciso nella sede diplomatica.
Khashoggi: l’accordo Ryad-Ankara
Caso finito, dunque, dopo aver incrinato i rapporti tra Stati Uniti e il suo più importante alleato arabo. D’altronde, era presumibile finisse così: nessuno voleva la rottura.
Khashoggi, sarà la presumibile spiegazione, doveva essere arrestato e portato in patria, ma è accaduto un imprevisto ed è rimasto ucciso. O magari è semplicemente morto di raffreddore, come si usava ai tempi dell’Unione sovietica.
A sbloccare la situazione è stato l’accordo tra sauditi e turchi, i più interessati ad alzare il tiro.
Infatti, ad accrescere la criticità al parossismo sono state proprio le rivelazioni di Ankara, che aveva denunciato la scomparsa del giornalista e, in seguito, aveva affermato di possedere registrazioni che provavano il suo assassinio.
Poi è arrivata la telefonata di re Salman a Erdogan (vedi Debkafile), e si è trovato un accordo: l’inchiesta congiunta turco-saudita, svolta in questi giorni, produrrà un esito “approvato” dai due.
“Il presidente turco – aggiunge Debka – avrà sicuramente chiesto al monarca saudita un prezzo per porre fine alla crisi”. E sarà salato.
La virata di Trump
Per parte sua, Trump, dopo le minacce iniziali contro Ryad, atto necessitato dalle pressioni dei media, ha abbassato il tiro, affermando che il giornalista “potrebbe essere stato ucciso da elementi incontrollabili”.
E ha inviato Pompeo a Ryad, a ricucire e dare ausilio alla monarchia, indebolita da questa sporca vicenda, sia sul piano interno che internazionale.
Un sostegno diretto anche a evitare che Ryad viri verso Mosca o ceda troppo ad Ankara, alleata dell’America ma fino a un certo punto.
Da vedere, però, se Trump potrà chiudere avallando semplicemente tale accordo. Di certo, gli avversari interni di Trump non sembrano molto interessati a usare il caso contro il presidente.
Almeno non i neocon e i liberal (ambiti legati a doppio filo). Ciò perché Mohamed bin Salman è pedina importante delle loro manovre.
Lo si è visto anche scorrendo le pagine del New York Times di questi giorni: il quotidiano della Grande Mela, avvezzo a usare la clava contro Trump, nel caso specifico ha preferito il fioretto.
E ciò pur essendo in qualche modo in ballo il genero presidenziale Jared Kushner, legato a doppio filo con Mohamed bin Salman, il principe ereditario saudita accusato dell’omicidio.
La Haley e il genio incompreso
Così il caso sembra aver fatto una sola vittima illustre in America, ovvero l’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley, le cui dimissioni appaiono il simbolo di una sconfitta dei neocon (vedi Piccolenote).
Quella Haley che al momento delle sue dimissioni ha parlato proprio del genero presidenziale, definendolo “genio incompreso”.
Una battuta ironica, forse, e, insieme, una dichiarazione di resa: in quell'”incompreso” sembra celarsi il rammarico di vedere a rischio i disegni legati al connubio Kushner – bin Salman.
Ma appare anche una velata minaccia di chiamata in correità nel caso dovesse uscir fuori una relazione tra l’ex ambasciatrice e la morte del giornalista saudita. Cosa che difficilmente accadrà, come per la vicenda del console americano ucciso in Libia e Hillary Clinton.
Khashoggi e il Washington Post
Tutto a tacere, dunque. Anche il Washington Post, che più di altri aveva battagliato, dato che Khashoggi era un suo collaboratore, sembra aver abbandonato la spinta iniziale.
E però, in un editoriale, spiega che ormai è tempo che Trump capisca che se una volta Ryad era indispensabile a Washington, ora è più questa ad aver bisogno degli Usa, senza il cui ausilio, come ha dichiarato in maniera “grossolana” Trump, “non sopravviverebbe”.
Trump, conclude il WP, “ha sopravvalutato la relazione” con i sauditi e ha “incoraggiato Ryad a credere di potersi comportare in modo avventato e persino criminale senza conseguenze. Qualunque sia l’esito del caso Khashoggi, è essenziale un cambiamento strutturale della relazione”; eventualmente, se necessario, su richiesta del Congresso.
Per il povero Khashoggi, dunque, non ci sarà giustizia in questo mondo. Ma se la sua morte porrà un freno a certe derive, può forse evitare qualche crimine futuro. E forse risulterà meno vana di tante altre morti innocenti che tali derive hanno procurato in questi anni, in Medio oriente e altrove.