La nuova forza dell'Iran e le dimissioni rientrate di Zarif
Tempo di lettura: 3 minutiLe dimissioni di Mohammad Zarif da ministro degli Esteri, poi rientrate, hanno fatto tremare il mondo, dato che egli rappresenta l’ala dialogante dell’Iran.
Zarif e Assad
Una vittoria dei radicali contro i moderati, che indeboliva il presidente Hassan Rouhani, legato a Zarif, e recideva l’ultimo filo al quale è rimasto appeso il trattato sul nucleare iraniano, stracciato dagli Usa ma conservato dall’Europa.
Per Teheran poteva aprirsi una nuova corsa al nucleare, con conseguente escalation.
A causare le dimissioni non è stato il contrasto con la destra, ma la visita di Assad in Iran (che evidenzia la nuova forza del presidente siriano).
Assad si è incontrato con l’ajatollah Khamenei e il generale Qassim Suleiman, capo delle Guardie rivoluzionarie e faro dei radicali.
Escluso Zarif, che ha visto così vanificato il suo ruolo agli Esteri e ha lasciato l’incarico. La sollevazione dei parlamentari moderati e l’irrigidimento di Rouhani hanno però convinto Khamenei a intervenire.
Le dimissioni sono state respinte, il generale Suleiman ha reso delle “scuse” e Assad ha invitato Zarif a Damasco.
Incidente chiuso, dunque, ma non poteva che andare così. Per una ragione profonda.
La vittoria iraniana
Per spiegarci, riportiamo quanto scritto da David Gardner per il 40° anniversario della rivoluzione iraniana (Financial Times), il quale ripercorre la storia del lungo contrasto contro Teheran, i cui sogni espansivi, dopo la vittoria degli ajatollah, erano stati presto “accantonati”.
La lunga guerra scatenata dall’Iraq contro l’Iran negli anni 80, su istigazione Usa, “per stroncare la rivoluzione nella culla” non solo ha visto Teheran sopravvivere, ma l’ha convinta a cercare l’atomica e a “stabilire linee di difesa avanzate nei Paesi limitrofi”.
L’invasione israeliana del Libano (’82) ha poi dato modo a Teheran di creare Hezbollah, ovvero la sua “punta di diamante” nel Levante.
L’intervento Usa in Iraq del 2003 ha abbattuto il dittatore Saddam, ma ha anche demolito un “baluardo anti-iraniano“. Mentre il caos in cui poi è sprofondata Baghdad ha prodotto “la governance sciita in un Paese che da secoli era un cuore pulsante arabo”.
Poi la guerra siriana, subappaltata dagli Usa ai Paesi sunniti, che ha consentito all’Iran di espandersi in Siria e prendersi i “complimenti” per aver sconfitto l’Isis.
Ma anche il piano di Trump per risolvere il conflitto israelo-palestinese: un accordo tra Paesi sunniti e Tel Aviv da imporre ai palestinesi, che ha reso Teheran l’unico difensore dei diritti di questi ultimi.
Così, nonostante “l’assedio internazionale”, l’Iran “ha resistito a tutti i suoi nemici”. E il quasi completamento dell’asse sciita, da Teheran al Mediterraneo, ha cambiato in suo favore il volto del Medio oriente.
I due volti dell’Iran
Un risultato favorito dagli “errori” dei suoi avversari, i quali hanno alimentato la “marcia improbabile verso l’egemonia regionale” di una popolazione persiana, che “storicamente suscitava diffidenza” nei vicini arabi.
Ora, continua Gardner, Trump e i suoi “aiutanti estremisti […] spandono retorica anti-iraniana”, come si è visto al recente vertice di Varsavia, che ricordava il “consiglio di guerra che precedette l’avventura in Iraq del 2003“.
Ma, dato il passato, Gardner non crede che “una maggiore bellicosità” verso Teheran otterrà risultati.
Anzi un’azione “radicale, compresi i sogni boltoniani di un cambio di regime a Teheran, ha buone possibilità di produrre un effetto boomerang”.
Invece l’unica strada per ridimensionare l’influenza iraniana è quella di “trattare con Putin” (“il più importante negoziatore” del Medio Oriente dopo l’intervento russo in Siria). E fare concessioni a Teheran.
“Si è detto che l’Iran deve scegliere il volto da mostrare al mondo”, conclude Gardner, se cioè il duro generale Suleiman o il dialogante Zarif.
“Per le autorità iraniane, questa è una falsa dicotomia e mai come nell’era Trump desiderano mostrare entrambi i volti”.
In altri termini, essi vogliono dimostrare di avere la forza per contrastare i loro nemici, ma che sono aperti a una trattativa, alla quale questi dovranno prima o poi decidersi.