Kim ha un malore: crolla un altro pilastro della politica di Trump
Tempo di lettura: 4 minutiKim Jong-un, il presidente della Corea del Nord, è sparito, e si rincorrono voci sulla sua salute. Sembra un infarto, ma non se ne sa il decorso, tanto che molti si vanno interrogando se il cuore gli sia stato fatale.
La Corea del Nord smentisce le voci, ma ovviamente nessuno le crede. L’unica cosa certa è la sparizione del leader. Significativo che Trump abbia dichiarato di non credere alle voci funeste.
Sfortunato Trump, la malattia di Kim abbatte un altro dei pilastri della sua politica estera, uno dei pochi ancora in piedi. Ha provato la pace con Kim, contrastando feroci contrasti all’interno, ma quanto avvenuto rimanda tale possibilità, semmai sia ancora aperta, a un post elezioni, semmai vincerà.
Prima di Kim, Boris
La malattia di Kim segue di un mese quella che ha colpito Boris Johnson, che il coronavirus ha rischiato di eliminare dal teatro del mondo.
Johnson si era preso il coronavirus in giorni che sembravano dover far piazza pulita delle più alte autorità della Gran Bretagna: in pochi giorni il coronavirus ha infettato il principe Filippo, costringendo la Regina Elisabetta a fuggire da Londra; poi l’erede al trono, il principe Carlo, poi Boris Johnson, appunto (e per concludere anche il Ministro della Sanità, uomo cruciale in questa fase).
Tutti guariti, compreso Boris, che se l’è passata bruttina, con la vita appesa a un ventilatore. E con il fratello che ha protestato per come sarebbe stato trattato; nessuna visita né un controllo nei dieci giorni che hanno preceduto il ricovero, nonostante il contagio ormai conclamato (The Hill).
Ma che qualcosa non quadrava del tutto deve averlo percepito anche Trump, che dall’altra parte dell’oceano ha offerto il suo aiuto. Non solo un modo per dar conforto all’amico, anche una sollecitazione ai medici che lo avevano in cura.
Boris ce l’ha fatta, alla fine, e ha anche ringraziato medici e infermieri, ed è tornato al lavoro. Non fosse accaduto, Trump non avrebbe solo pianto l’amico, avrebbe anche dovuto dire addio ai suoi sogni di gloria, ché la Brexit, incarnata da Johnson, gli è necessaria. Impossibile la sua vittoria del 2016 senza quella pregressa del Leave al referendum britannico.
Il petrolio
Il coronavirus, ma questo l’abbiamo già scritto, ha poi posto fine alla ripresa economica Usa, sulla quale Trump ha puntato tante sue carte.
Non solo, la crisi petrolifera, innescata dalla pandemia, ma anche dalla folle politica dell’Arabia Saudita che ha inondato il mondo di oro nero in questo momento di crisi, ha chiuso anche un’altra parentesi della presidenza trumpiana, quella che dava agli Usa il primato della produzione di greggio nel mondo.
Sogno ormai infranto: le imprese petrolifere Usa sono al collasso e non si riprenderanno a breve, né forse mai. Col petrolio che costa ormai quasi quanto l’acqua, l’era del petrolio di scisto, più costoso di altri, è anch’essa acqua passata.
Non solo lo scisto, il collasso petrolifero gli chiude un’altra interlocuzione importante, cercata sin dai tempi della campagna elettorale, quella con Putin. Con Putin e con Xi della Cina, aveva sognato di dare un ordine al mondo, dopo il caos delle guerre infinite.
Ma Putin non può più seguirlo, almeno al momento: il petrolio al collasso lo priva della sua più importante arma di politica estera.
Coronavirus e crisi del greggio costringono Putin a concentrarsi al massimo sulla politica interna. La sua Russia è a rischio e deve evitare spinte destabilizzanti, che la crisi può innescare quando meno se lo aspetta.
La Cina e l’Ordine nuovo
Infine, la Cina. Nonostante i contrasti, Trump puntava su questa per una spinta vincente. Prima che arrivasse la pandemia aveva anche chiuso un accordo con Xi, che avrebbe aiutato ancora di più le imprese americane, e quindi la sua presidenza.
E c’era tempo e spazio per altri accordi, ancora più vantaggiosi. Prima che la pandemia cambiasse tutto. Ora, spinto dall’onda neocon, deve attaccare la Cina. E con lui il suo rivale Joe Biden, che in un tweet velenoso ha indicato come il “candidato da sogno” per Pechino.
Un twitt che ha innescato una gara tra i due candidati a chi è più contro la Cina (Politico). A tale miseria si è ridotta la campagna politica per le presidenziali: nessuno dei due vuole alienarsi l’appoggio importante del Deep State, che ha messo Pechino al centro del mirino.
Non solo il Deep State. Si cerca il favore di tutti quegli ambiti, potenti e influenti, preoccupati che Trump e la Cina, in combinato disposto con Putin, potessero porre fine al loro asserito ordine mondiale, quello del post-Seconda guerra mondiale (Piccolenote).
Una finzione, che quell’ordine era già bello e finito, sotterrato dalle macerie del Muro nell’89, il crollo che aveva creato il loro ordine nuovo, che ha fato tali ambiti signori e padroni della scena globale. Ordine che è puro disordine e guerre senza fine.
L’uscita di scena, seppur momentanea, di Kim è un altro tassello della destrutturazione di quell’Ordine altro che la vittoria di Trump aveva iniziato a creare (e rilanciato da Kissinger recentemente).
Per Trump, sfortunato, è tempesta perfetta. Deve navigare a vista cavalcando le onde, nella speranza di riuscire lo stesso vincente.
Nella speranza, ormai rimandata, che al secondo mandato, più libero, possa rimettere mano a quell’ordine che il virus, il petrolio e quanto altro hanno ormai reso macerie fumanti.