Felicità pandemica e da smart working: la follia dei sondaggi
Nell’ultimo anno abbiamo dovuto fare la conoscenza con lo “Smart working”. Qualche volta come possibilità, il più delle volte come obbligo, molti lavoratori hanno cominciato a lavorare da casa.
Spesso magnificato dai media come fonte di relax, tempo libero, gratificazione e, soprattutto, scelta molto “green” il lavoro “agile” (nella traduzione italiana) in poco tempo ha però cominciato a mostrare qualche crepa.
I lavoratori ne hanno scoperto a proprie spese il lato oscuro. Diverso il discorso per le aziende, che molti risparmi li hanno sicuramente realizzati. Quanto questi risparmi siano realmente convenienti è però ancora tutto da dimostrare.
Quanto e come si lavora da casa
Molti gli studi che si sono affannati a spiegarci i vantaggi dello smart working. Più rari quelli che ne hanno analizzato i problemi. Tra questi ultimi riportiamo un articolo dell’ANSA del 27 marzo scorso: “Diverse ricerche, l’ultima delle quali pubblicata da Gartner, hanno trovato che gli impiegati ‘ibridi’, che parzialmente o totalmente lavorano da casa con conseguenti ‘interferenze’ familiari, staccano due o tre ore dopo, e sono molto più a rischio stress. Secondo Gartner il 40% di chi lavora almeno parzialmente da casa fa orari più lunghi, e fatica a disconnettersi 1,27 volte più di chi invece è in ufficio”.
L’autrice della ricerca, Alexia Cambon, spiega i danni provocati dalla perdita del concetto di orario di lavoro connessa allo smart warking: “Siamo in un ecosistema in cui si lavora tutto il giorno da casa, e ci sono molte più interruzioni per motivi lavorativi o familiari. Dobbiamo mettere qualche confine perché questo non va bene per la salute mentale, visto che conciliare tutti gli aspetti è diventato più difficile”.
“Non solo quindi più ore lavorative, ma anche più stress e più distrazioni, quindi meno produttività. Mettere i confini tra lavoro e vita privata diventa sempre più difficile e tale problema, riporta la ricerca, riguarda anche gli studenti di scuole superiori e università”.
Ricerche e preveggenze
Ma per qualcuno tutto questo semplicemente non esiste. Così come vengono sottovalutati problemi e tragedie con cui tutti noi, gente normale, dobbiamo fare quotidianamente i conti.
In tanti, nell’ultimo anno, hanno guadagnato di meno, anche molto meno, e molti non hanno guadagnato affatto. Non abbiamo alcuna certezza sul futuro, non vediamo amici e parenti, non siamo (o quasi) andati in vacanza e non ci ricordiamo nemmeno cosa sia un cinema o un teatro, non sappiamo come pagare il mutuo o la scuola ai figli e, come se non bastasse, abbiamo visto morire nonni, genitori e amici.
Ma tutto questo non conta. Siamo più felici. Almeno secondo le (in)solite ricerche, che altro non sono che l’usuale racconto di comodo realizzato in favore dei padroni del vapore.
Operazioni note, già viste ad esempio in occasioni politiche, quando i media manistream riportavano sondaggi rivelatisi poi totalmente sballati, ma che rispecchiavano i desideri delle grandi élite (vedi Brexit ed elezioni Usa, con sondaggi che davano perdente la prima e sempre vincenti, di gran lunga, gli antagonisti di Trump).
Non sondaggi reali, dunque, ma vere e proprie narrazioni create per influenzare l’opinione pubblica (certo, c’è la possibilità che siano errori, ma è difficile siano tali se tanto ossessivamente reiterati e sempre, sistematicamente, così allineati).
L’ultimo sondaggio, in ordine di apparizione, che ci spiega che “smart working è bello” e che siamo più felici adesso che prima della pandemia, è quello del Financial Times riferito da Dagospia.
“Sabato scorso – racconta un giornalista del FT – ho preso un caffè con un amico che ho visto a malapena durante tutta la pandemia. Subito dopo esserci dati il gomito, ha orgogliosamente preso il telefono per mostrarmi i risultati delle sue analisi più recenti: il colesterolo era crollato perché aveva smesso di mangiare fuori; era contento di non socializzare, e quando la sera precedente era stato invitato a due cene ‘illegali’ ha detto di non poter partecipare perché doveva rimanere a casa a guardare Netflix. È stato piacevole incontrarci, ma in meno di un’ora avevamo finito gli argomenti e ci siamo inventati delle scuse per tornare a casa e goderci la beata solitudine”.
Sani, soli e Netflix-dipendenti, questa è la felicità che viene propagandata, in linea con la clip preveggente del World Economic Forum che vede nel 2030 un mondo in cui nessuno avrà nulla, ma saremo tutti felici. Ovviamente se nessuno avrà nulla qualcuno avrà tutto, ma di questo non dobbiamo preoccuparci, che non è un problema nostro.
Tema usuale di queste supposte ricerche è che la sostituzione dei normali rapporti umani con gli attuali rapporti digitali a distanza, non solo non è un danno, ma anzi da più benefici che problemi.
“La pandemia ha semplificato molte vite ‘impegnate e complicate’ ha rivelato Bartels a Horizon, la rivista europea sulla ricerca e innovazione: “alcune persone hanno realizzato che probabilmente non conducevano la vita che volevano [e hanno] passato più tempo a casa con le proprie famiglie – ricevendo un po’ di sollievo dallo stress quotidiano”.
Che la realtà sia ben differente da questa narrazione idilliaca è sotto gli occhi di tutti. E se non bastasse il precipitare delle condizioni materiali, dobbiamo registrare anche un aumento dei sintomi depressivi in ampie fasce della popolazione. I dati riportati dalla Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia sono impressionanti.
Il dilagare di problematiche psichiatriche, peraltro, è solo la punta di un iceberg di una tragedia le cui conseguenze restano ancora per lo più sommerse. Probabilmente nessuno di coloro che sono stati intervistati nella fantasmagorica ricerca del FT hanno subito i danni in questione. O forse sì…