Impressioni da Roma, Ponte di Ferro
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(Foto Massimo Quattrucci, commento Fabio Pierangeli)
Ponte di ferro. Uno dei luoghi più romani, adesso abitato anche dal teatro India, nella cittadella dell’ex fabbrica Mira Lanza, un grande insediamento industriale sulle rive del Tevere, in una zona dominata dalle strutture del vecchio gazometro. Il teatro ha i tetti spioventi, è diviso in tre navate e ricoperto di mattoni scuri. Architettura che rammenta tragicamente i sinistri edifici dei lager. E che rimanda al ponte che si allunga lì da presso: una targa affissa alla struttura di ferro ricorda l’eccidio del venerdì santo del 1944, durante l’occupazione nazista.
In tutta la città i romani allo stremo, in particolare le donne, avevano dato l’assalto ai forni, costringendo i nazifascisti a scortare i convogli e a presidiare depositi e punti di distribuzione. In quella temperie avvenne il tragico evento del Ponte dell’Industria, consumato nel giorno in cui la Chiesa fa memoria della morte del Signore. Così rievoca l’episodio Carla Capponi:
«Le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e aveva grossi depositi di farina. Decisero di assaltare il deposito che apparentemente non sembrava presidiato dalle truppe tedesche. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate o per evitare danni ai macchinari, lasciò che entrassero e si impossessassero di piccoli quantitativi di pane e farina. Qualcuno invece chiamò la polizia tedesca, e molti soldati della Wehrmacht giunsero quando le donne erano ancora sul posto con il loro bottino di pane e farina. Alla vista dei soldati nazisti cercarono di fuggire, ma quelli bloccarono il ponte mentre altri si disposero sulla strada: strette tra i due blocchi, le donne si videro senza scampo e qualcuna fuggì lungo il fiume scendendo sull’argine, mentre altre lasciarono cadere a terra il loro bottino e si arresero urlando e implorando. Ne catturarono dieci, le disposero contro la ringhiera del ponte, il viso rivolto al fiume sotto di loro. Si era fatto silenzio, si udivano solo gli ordini secchi del caporale che preparava l’eccidio. Qualcuna pregava, ma non osavano voltarsi a guardare gli aguzzini, che le tennero in attesa fino a quando non riuscirono ad allontanare le altre e a far chiudere le finestre di una casetta costruita al limite del ponte. Alcuni tedeschi si posero dietro le donne, poi le abbatterono con mossa repentina “come si ammazzano le bestie al macello”: così mi avrebbe detto una compagna della Garbatella tanti anni dopo, quando volli che una lapide le ricordasse sul luogo del loro martirio. Le dieci donne furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue. Il ponte fu presidiato per tutto il giorno, impedendo che i cadaveri venissero rimossi; durante la notte furono trasportati all’obitorio dove avvenne la triste cerimonia del riconoscimento da parte dei parenti.
Ultima vittima della protesta fu, il 3 maggio successivo, una madre di sei figli: Caterina Martinelli, mentre ritornava a casa con la sporta piena di pane dopo l’assalto a un forno nella borgata Tiburtino III, fu falciata da una raffica di mitra».
Per non dimenticare, oggi come allora, gli orrori della guerra.