Santa Martina e la Chiesa che abita in Roma
Siamo nel 1634, a Roma. Pietro Berrettini da Cortona, immenso pittore e architetto del primo Barocco, si prende l’incarico di ricostruire a sue spese la chiesa di Santa Martina al Foro Romano, ormai in stato di abbandono da molti anni. Il culto di Martina era ormai avvolto dall’oblio e delle sue reliquie non si sapeva più nulla. A differenza di altre martiri più celebri, lei non aveva avuto il dono di una devozione costante, capace di conservarne il ricordo nel tempo.
Pietro da Cortona, oltre alla ricostruzione della chiesa, desiderava ardentemente ritrovare le reliquie della martire, accanto alle quali, qualora fossero state ritrovate, voleva essere sepolto. Un’impresa che avrebbe dovuto realizzare da solo, dal momento che papa Urbano VIII non voleva in alcun modo finanziarla.
Chi era Martina? Di lei, come del resto della gran parte dei martiri della cristianità delle origini, sappiamo pochissimo, se non quello che ci trasmettono le Passiones, scritti agiografici dove realtà e leggenda si mescolano.
La sua vicenda terrena si colloca nella prima metà del III secolo. La giovanissima Martina, nata in una nobile famiglia romana, rimase orfana di entrambi i genitori. Non perdendosi d’animo, come prima cosa decise di rinunciare a tutte le sue ricchezze per donarle ai poveri: una pratica di carità comune a molte donne delle prime comunità cristiane.
Regnava allora Alessandro Severo, un imperatore originario della Frigia, regione dell’Anatolia occidentale. Era un uomo tollerante, tanto da includere Cristo nel suo larario. Ma evidentemente non abbastanza per proteggere Martina dalla persecuzione di Ulpiano, celebre giureconsulto e potente prefetto del Pretorio. Arrestata per la sua fede, che professava apertamente, la giovane fu sottoposta ad atroci sevizie, tra cui, quella più crudele, fu di straziarne le carni con uncini di ferro. La Passio narra che fu condotta davanti alla statua di Apollo e ivi torturata, ma la statua del dio andò in frantumi e un terremoto distrusse il tempio e ne uccise i sacerdoti. Lo stesso prodigio si ripeté quando fu condotta e seviziata nel tempio di Artemide. Ma, accecati dall’odio, i suoi carnefici perseverarono nella loro decisione e fu decapitata. Era il 228: da quel momento su Martina scese il silenzio.
Ma evidentemente quel suo martirio ebbe grande eco nella prima comunità cristiana di Roma. Tanto che, quattro secoli dopo la sua morte, papa Onorio I le volle dedicare una piccola chiesa in un luogo dove un tempo sorgeva l’antica Curia Hostilia, così denominata perché fondata, secondo tradizione, dal re Tullo Ostilio. L’invidiabile posizione della chiesa, posta tra il Foro Romano e i Fori di Cesare e di Augusto, l’era valso anche l’appellativo di “Sancta Martina in tribus foris”
Successivamente, la chiesa venne adibita ad usi civili e ancora una volta la memoria della martire si perse. Fino al 1256, durante il pontificato di Alessandro IV, quando, nel corso di lavori di ripristino della chiesa, vennero alla luce le reliquie di Martina e di altri tre martiri: Concordio, Epifanio e un terzo rimasto senza nome. Restaurata e riconsacrata, la chiesa, incredibilmente, andò incontro a un nuovo abbandono.
Passarono altri secoli. Nel 1588 papa Sisto V concesse la chiesa di Santa Martina all’Università delle Arti della pittura, della scultura e del disegno – l’attuale Accademia Nazionale di San Luca – come compensazione per l’abbattimento della chiesa dell’Esquilino intitolata a Luca evangelista protettore dei pittori, demolita a causa dell’ampliamento della piazza di Santa Maria Maggiore.
Tra il 1592 e il 1618 diversi artisti come Federico Zuccari e Giovanni Baglione realizzarono vari progetti per la ricostruzione della chiesa accademica. Ma il lavoro di restauro era davvero arduo: dalle murature da rialzare ai pavimenti da rifare e poi la cripta per i sepolcri degli artisti da scavare e costruire ex novo. Insomma, occorreva un’immane quantità di denaro che non si poteva coprire neanche con la vendita delle antichità rinvenute nei dintorni. A quel punto si fece avanti Pietro Berrettini da Cortona, divenuto nel 1634 principe dell’Università delle arti, chiarendo a tutti, al papa in primis, che al denaro avrebbe provveduto lui stesso. Sperava, infatti, che nella chiesa dedicata alla martire potesse rinvenire le spoglie della stessa, delle quali si era perduta traccia.
Berrettini fa il progetto e poi, come prima cosa, inizia a scavare sotto l’altare, dove intende predisporre la tomba di famiglia, esattamente sotto la confessione, secondo l’uso antico. Ed ecco che il 25 ottobre del 1634 affiora dallo scavo una cassa con molti resti e una lamina di terracotta con su scritto «qui riposano i corpo de’ Sacri Martiri Martina Concordio Epifanio con loro Compagno».
La scoperta fa accorrere tutta Roma, la città è inondata da un clima di festa. Urbano VIII, commosso, si reca subito a rendere omaggio alla martire. Non solo, decide di stanziare una gran quantità di danaro per aiutare nell’impresa Pietro da Cortona. Il Papa non è in sé dalla gioia anche perché solo poco tempo prima del ritrovamento delle reliquie di Martina erano state ritrovate quelle di Bibiana, tanto da indurre il papa a ricostruire la chiesa a lei dedicata presso l’Esquilino.
L’euforia è così contagiosa da spingere anche il cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, a donare fondi. In questo clima gioioso e commosso, Urbano VIII fissa al 30 gennaio la celebrazione di Martina e la eleva a compatrona di Roma.
Quanto a Pietro da Cortona, l’emozione intensa che prova al ritrovamento delle reliquie lo spinge a modificare il suo progetto architettonico tanto da trasformarlo in una testimonianza di commossa devozione. Nella realizzazione della chiesa mette tutto se stesso: talento, passione, impegno, denari. E il risultato fu quell’autentico gioiello del barocco romano che si può ammirare nel cuore del Foro Romano, accanto ai marmi istoriati dell’arco di Settimio Severeo e all’umbilicus urbis, cioè il centro ideale di Roma. La chiesa dei Santi Luca e Martina è un capolavoro di armonia, di morbidezza e di luce, con la curvatura dolce della facciata, la preziosità della cupola.
Il Cortona, che considerava la chiesa come sua figlia diletta, oltre a costruire a proprie spese la chiesa sotterranea e a dotarla di arredi preziosi, volle continuare a beneficiarla anche dopo morto, provvedendo, nel testamento, a dotarla di rendite future.
Per scoprire come l’artista immaginò la “sua” santa, basta fare una visita nelle Stanze di San Filippo Neri in Santa Maria in Vallicella: là si trova un piccolo olio su rame, il Matrimonio Mistico di Santa Martina, che il cortonese realizzò come ex voto dedicato a Filippo Neri, l’altro santo di cui era devoto per una guarigione ricevuta. Il piccolo rame rappresenta un tema assai caro al pittore, che lo replicò in numerose versioni, dopo l’edizione dell’opera dell’oratoriano Marsilio Honorati (Historia della Santa Martina Vergine e Martire Romana, cavata dagli antichi manoscritti, 1635) confessore e amico dell’artista.
Nel dipinto sono presenti alcuni elementi della storia della martire, come gli uncini di ferro con cui i carnefici straziarono le sue carni e la piramide Cestia sullo sfondo, ad indicare il luogo dell’esecuzione sulla via Ostiense. Con il Bambino Gesù in grembo alla Madonna che tiene in mano il melograno simbolo della Passione. E poi il bellissimo giglio, al centro della composizione, che rimanda sia alla purezza della giovane che al fiorentino san Filippo, di cui il fiore è l’emblema.
In un documento d’archivio alla Vallicella si legge: «…l’istesso Pietro d Cortona, essendosi infermato, si raccomandò a San Filippo; guarito, portò un voto da lui dipinto, che si conserva nella stanza di sopra».
La storia di questa giovane martire che, a distanza di secoli, ha commosso una città intera, ricorda da presso la vicenda dei santi Gervasio e Protasio, ritrovati da sant’Ambrogio, il quale, in una lettera alla sorella Marcellina, scrive: «Poiché io non merito di essere martire vi ho procurato questi martiri». Uno sguardo grato e commosso a queste sante reliquie che partecipa, nella sua umiltà, di quella grazia santificante che ha nel martirio la sua più gloriosa testimonianza.