Il Papa, la gioia per il dono di Dio e la presunzione di possedere la verità
Tempo di lettura: 3 minuti«Nel Deuteronomio vediamo la “gioia della legge”: legge non come vincolo, come qualcosa che ci toglie la libertà, ma come regalo e dono (…). E’ questa la gioia umile di Israele: ricevere un dono da Dio. Questo è diverso dal trionfalismo, dall’orgoglio di ciò che viene da se stessi». Così il Papa nell’omelia durante la messa celebrata il 2 settembre a Castel Gandolfo, al termine dell’ormai consueto incontro annuale con i suoi ex allievi. Prosegue il Papa: «Il Vangelo ci mostra però che c’è anche un pericolo – come si dice pure direttamente all`inizio del brano odierno del Deuteronomio: “non aggiungere, non togliere nulla”. Ci insegna che, con il passare del tempo, al dono di Dio si sono aggiunti applicazioni, opere, costumi umani, che crescendo nascondono ciò che è proprio della saggezza donata da Dio, così da diventare un vero vincolo che bisogna spezzare, oppure da portare alla presunzione: noi l’abbiamo inventato! Ma passiamo a noi, alla Chiesa. Secondo la nostra fede, infatti, la Chiesa è l’Israele che è diventato universale, nel quale tutti diventano, attraverso il Signore, figli di Abramo; l’Israele diventato universale, nel quale persiste il nucleo essenziale della legge, privo delle contingenze del tempo e del popolo. Questo nucleo è semplicemente Cristo stesso, l’amore di Dio per noi ed il nostro amore per Lui e per gli uomini (…). Conviene, quindi, alla Chiesa, come per Israele, essere piena di gratitudine e di gioia. “Quale popolo può dire che Dio gli sia così vicino? Quale popolo ha ricevuto questo dono?”. Non lo abbiamo fatto noi, ci è stato donato. Gioia e gratitudine per il fatto che lo possiamo conoscere, che abbiamo ricevuto la saggezza del vivere bene, che è ciò che dovrebbe caratterizzare il cristiano (…). Ma anche nella Chiesa c’è lo stesso fenomeno: elementi umani si aggiungono e conducono o alla presunzione, al cosiddetto trionfalismo che vanta se stesso invece di dare la lode a Dio, o al vincolo, che bisogna togliere, spezzare e schiacciare. Che dobbiamo fare? Che dobbiamo dire? Penso che ci troviamo proprio in questa fase, in cui vediamo nella Chiesa solo ciò che è fatto da se stessi, e ci viene guastata la gioia della fede (…). Noi siamo preoccupati di lodare solo noi stessi, e temiamo di farci legare da regolamenti che ci ostacolano nella libertà e nella novità della vita (…). Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. E’ la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi. Penso che dobbiamo imparare di nuovo questo “non-avere-la-verità”. Come nessuno può dire: ho dei figli – non sono un nostro possesso, sono un dono, e come dono di Dio ci sono dati per un compito – così non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra».