La crisi ucraina e l'economia Usa
Tempo di lettura: 4 minutiFinisce il G8 e si torna al G7. La Russia è stata espulsa dal club esclusivo dei potenti della terra. A quanto pare i russi se ne sono fatta una ragione, reagendo alla decisione con certa noncuranza e facendo notare che, dal momento che si tratta appunto di un club, quindi di un organismo informale, non c’è vincolo associativo dal quale decadere. Semplicemente gli altri membri del club si riuniranno senza di loro. Obama spiega comunque che la decisione è temporanea: si tratta di una sospensione che può essere riveduta qualora la Russia favorisse una de-escalation in Ucraina. Anche se non si capisce bene cosa voglia dire, se cioè la Crimea debba tornare a Kiev o se i russi devono ritirare le truppe dal confine ucraino, richieste di difficile accoglienza da parte dell’interlocutore senza un negoziato globale che preveda anche rassicurazioni per la minoranza russa in Ucraina e garanzie riguardo l’ingresso della stessa nella Nato e sue conseguenze. Vedremo se mai si farà.
Il presidente degli Stati Uniti ha aggiunto che la Russia, dopo l’espulsione dal G8 e l’avvio delle sanzioni internazionali, è rimasta isolata. In realtà i Paesi emergenti aderenti al Bric (che oltre alla Russia comprende India, Cina, Brasile) hanno comunicato che non parteciperanno alle sanzioni contro la Russia. Si tratta di Stati che contano due miliardi e mezzo di cittadini, metà dell’umanità presente sul pianeta… Un po’ difficile parlare di isolamento.
La misura è stata presa dopo il ritorno della Crimea alla Russia. Decisione fortemente contestata dall’Occidente che parla di un referendum farsa e di una pulsione imperialistica da parte di Putin. In realtà a monitorare il referendum c’erano 70 osservatori Onu che ne hanno constatato la regolarità, né da parte occidentale è stata mossa alcuna contestazione riguardo brogli o altro. Semplicemente la quasi totalità della popolazione della Crimea, compresa la minoranza tatara che l’Occidente aveva ascritto d’ufficio troppo in fretta all’opposizione, ha deciso di non voler avere nulla a che fare con Kiev e chiesto l’annessione alla Russia con percentuali assertive. Una decisione libera, per quanto valgono gli istituti referendari che pure sono alla base delle democrazie moderne. D’altronde se non fosse forte il legame con la Russia da parte della stragrande parte della popolazione, Putin non avrebbe potuto invadere il Paese in così poco tempo e senza spargimento di sangue (una persona uccisa, secondo alcune fonti sarebbe stato un cecchino pro-Ucraina che progettava di ripetere il giochino di piazza Maidan, uccidendo dei filo-russi e dei filo-ucraini nel tentativo di far salire la tensione). Ne sanno qualcosa gli Stati Uniti: quando Bush figlio decise di invadere l’Iraq, diversi uomini della sua amministrazione e tanti osservatori internazionali si dissero certi che la guerra sarebbe stata breve, dal momento che la popolazione locale avrebbe accolto i marines come dei liberatori. È andata diversamente, come visto.
Ma a dare la misura di quanta popolarità abbia in Crimea il nuovo corso ucraino è un dato incontrovertibile. Da giorni i media occidentali danno notizia dell’eroica resistenza dei militari ucraini assediati dagli invasori e privi di direttiva da parte del nuovo governo di Kiev. Una resistenza durata poco, ché a uno a uno questi presidi sono stati smobilitati con corollario di foto, altrettanto eroiche, di militi con la bandiera ucraina che tornano in patria, vinti ma non domi. Bene, l’88% dei militari ucraini ha deciso liberamente di passare dall’altra parte della barricata, arruolandosi seduta stante nell’esercito russo. Nella marina la percentuale è stata di poco minore, ovvero l’82%, ma sempre altissima. Sono numeri importanti, anche perché a differenza della popolazione civile, si tratta di ambiti in cui vige la disciplina militare che li legava a Kiev, e avevano la possibilità di tornare in Ucraina con tutti gli onori e un lavoro assicurato. Nel loro piccolo un referendum nel referendum che conferma il risultato del primo.
Anche l’assenza di un qualche esodo, di massa o almeno di parte della popolazione, dalla Crimea all’Ucraina tende a confermare il dato: la popolazione della Crimea ha liberamente scelto la Russia. E ha scelto in base a un principio di autodeterminazione dei popoli presente nella Carta Onu e “allargato” all’epoca della secessione del Kosovo dalla Serbia ad opera dagli stessi ambiti che oggi si dicono scandalizzati.
Al di là della legittimità o meno della secessione della Crimea, l’altro dato da rilevare è che la guerra dichiarata dall’Occidente contro Putin è un buon affare per gli Stati Uniti. Oltre alle sanzioni, che congelano nelle banche occidentali soldi russi, è stato messo in agenda un summit dei leader occidentali per rendere l’Europa meno dipendente dal petrolio di Mosca. Una richiesta avanzata dagli ambienti neocon, alla quale l’Occidente si è subito adeguato. La soluzione individuata è che l’Europa non comprerà più petrolio da Putin ma dagli Stati Uniti. Cosa possibile grazie al perfezionamento di una tecnologia che rende possibile sfruttare a prezzi accessibili bacini di petrolio prima inutilizzabili. È lo shale-gas, del quale gli Stati Uniti sono ricchi e che presto inonderà l’Europa prendendo il posto del petrolio russo. Vero che lo shale-gas inizierà ad arrivare nel Vecchio continente tra anni, ma se già si inizia a fare accordi, a prendere commesse, la macchina comincerà a mettersi in moto, con moto virtuoso. Insomma, grazie alla guerra a Putin l’America potrà risolvere la crisi economica che l’attanaglia, o almeno favorirne la risoluzione.
Per l’Europa, dal punto di vista energetico, cambia poco, anche se per tanti motivi sarà più difficile sviluppare fonti energetiche alternative, settore sul quale è all’avanguardia. Ma questa conversione petrolifera comporta ovviamente un nuovo rapporto con il vicino Atlantico, più stretto. Se l’Unione europea è nata, nell’idea dei padri fondatori, come un soggetto nuovo della politica internazionale, la rinnovata dipendenza energetica, settore chiave per la politica di una nazione, ne andrà a erodere i fondamenti e salderà ancora di più quei vincoli atlantici che erano stati messi in discussione anche dalla nascita dell’euro (in alcuni momenti l’euro è sembrata una moneta alternativa al dollaro in ambito internazionale). È a tema, in questa temperie, un nuovo accordo di libero scambio che accomuni gli Stati Uniti e l’Europa. Se ne parla da tempo, ma è probabile che la conversione allo shale-gas ne acceleri la realizzazione, ad ora frenata da diverse circostanze. Un nuovo tassello della globalizzazione e di tanti altri cambiamenti nel mondo.
Un’ultima osservazione rimanda alla nota riguardante la telefonata intercettata della pasionaria Julija Timoschenko riportata nella sezione Mondo. Per aggiungere una postilla a quanto scritto in quella sede. L’Occidente spinge per portare l’Ucraina nella Nato e piazzare i suoi missili balistici alle porte di Mosca, motivo per il quale in Russia la prospettiva è alquanto indesiderata. Alla luce della telefonata della Timochenko il progetto prende una piega un po’ più oscura. Davvero si vuole dare in gestione dei missili puntati su Mosca a persone che minacciano l’uso della bomba atomica, seppure in un momento di rabbia, con tanta facilità? Forse è il caso di una riflessione più approfondita.