Se Tony Blair cambia idea sulla Siria
Una premessa necessaria: Tony Blair non è cambiato. Il suo discorso del 23 aprile scorso nella sede dell’agenzia Bloomberg, a Londra, è ispirato alla stessa idea del mondo e della politica internazionale che ha orientato i suoi dieci anni al potere. Un discorso programmatico sulla situazione in Medio Oriente, con due idee di fondo.
La prima: in un mondo in bianco e nero, fatto di buoni e cattivi, lo scontro è tra i sostenitori di una società aperta e pluralistica, da una parte, e l’islamismo dall’altra. E l’islamismo secondo Blair, diventa una categoria ampia, amplissima, in cui l’unica differenza tra il partito islamico tunisino e i qaedisti siriani, tra il presidente iraniano Rowhani e i terroristi ceceni è una differenza di “intensità”. La lotta contro l’islamismo è la sfida della nuova epoca, dice Blair, come la lotta al comunismo è stata la sfida del dopoguerra.
La seconda idea-chiave del discorso dell’ex premier britannico: ancora una volta, l’interventismo. «Dobbiamo scegliere da che parte stiamo» e non aver paura di agire, dice Blair. La retorica è la stessa degli anni dello scontro di civilità, anche se aggiornata al mondo nuovo.
Eppure c’è qualcosa di nuovo nelle parole del leader laburista. Un’apertura senza precedenti su quanto accade in Siria. Blair difende la sua presa di posizione di due anni fa, quando chiese un intervento militare contro Bashar al Assad. Oggi però la situazione è diversa: «Sia la permanenza di Assad, sia la vittoria dell’opposizione appaiono cattive opzioni». E allora, per la prima volta, Blair ipotizza un compromesso: «L’unica strada possibile è concludere il miglior accordo possibile, anche se questo significa la permanenza di Assad ad interim, per un certo periodo». I negoziati di Ginevra 2, tra rappresentanti del governo siriano e delle opposizioni, sono falliti anche per la richiesta dei ribelli che l’allontanamento di Assad fosse il primo passo di qualsiasi transizione politica.
L’opzione militare non scompare, nelle parole di Blair, ma si allontana nel tempo: se – e solo se – Assad dovesse rifiutare questo tipo di accordo, «dovremmo valutare il modo di sostenere l’opposizione, ad esempio con delle no-fly zone». È una posizione diversa da quella della Turchia, col premier Recep Tayyip Erdogan che preme per imporre da subito il divieto di sorvolo su certe aree della Siria.
Blair è rimasto lo stesso Blair. Proprio per questo la sua apertura merita attenzione. Segnala che, anche tra quelle forze che hanno dominato lo scacchiere mondiale negli anni dell’“esportazione della democrazia”, si fa strada l’idea di un negoziato con Assad e con i suoi sponsor, dalla Russia all’Iran. Una circostanza che potrebbe rivelarsi di breve durata: le elezioni americane del 2016 o quelle francesi del 2017 non sono poi così lontane, e potrebbero dare la vittoria a personalità poco disposte alla trattativa. Può bastare poco a ridar fiato a chi desidera un intervento dell’Occidente in Siria.
Anche per questo le parole di Blair meritano attenzione, perché indicano, nell’immediato, se non una finestra di opportunità, una possibilità, seppur remota, per la ripresa di un negoziato, magari sottotraccia. Nella notte buia che è calata sulla vicenda siriana, dove al momento parlano solo le armi, è una novità. A conferma dell’importanza della presa di posizione di Blair, il subbuglio che ha portato in quel mondo anglosassone del quale è stato, ed è, esponente di rilievo: l’attacco sferrato dal Financial Times al leader laburista è significativo in questo senso. Qualcosa si muove.