Quella parte di Israele che non rinuncia al dialogo con i Palestinesi
C’è voluto qualche giorno perché il polverone si posasse e si tornasse a vedere chiaro. La prima reazione da parte israeliana all’accordo tra Fatah e Hamas, le due principali organizzazioni politiche palestinesi, è stata di sdegno: così si manda all’aria il processo di pace, hanno urlato un po’ tutti. Negoziati sospesi, annuncia il governo di Benjamin Netanyahu. Anche se, sulla stampa, faceva già capolino qualche opinione discordante: l’accordo aiuta i negoziati – ha scritto da subito il Times of Israel di David Horowitz – perché «se non si mette fine alla divisione tra Gaza e la Cisgiordania nessun accordo è realistico».
Passano un paio di giorni dall’annuncio dell’accordo e l’ala più moderata del governo Netanyahu inizia a smorzare i toni. Comincia Tzipi Livni, ministro della giustizia e capo-negoziatore israeliano, ovvero la responsabile formale dello stop alle trattative: «Non abbiamo chiuso la porta ai colloqui di pace – chiarisce il 24 aprile –. Il governo non ha deciso di ritirarsi dai negoziati, piuttosto di sospenderli e riesaminarli». Messa così, la decisione ha tutto un altro sapore. Sembra quasi che la Livni pensi a un nuovo inizio per il processo di pace.
E non è la sola. Anche Yair Lapid – centrista pure lui, vera sorpresa delle ultime elezioni col suo partito Yesh Atid – sulle prime ha condannato l’accordo tra Fatah e Hamas. Ma già il 3 maggio, quando Lapid si rivolge al pubblico americano del Wall Street Journal, la musica cambia: «È già successo una volta. Anche l’Olp era un’organizzazione terroristica», mentre oggi accetta il diritto di Israele all’esistenza. Se anche Hamas riconoscesse quel presupposto, «non sarà più la stessa Hamas, e dovremo discuterne».
Passa un giorno, ed ecco intervenire il presidente Shimon Peres. Rispondendo alle domande del Times of Israel, Peres racconta una vecchia storia. Quando l’Internazionale socialista voleva accogliere Fatah tra i suoi ranghi, solo lui era contrario. Willy Brandt, Bruno Kreisky e Olaf Palme lo andarono a cercare, chiedendo di fare un passo indietro. «Perché dite che sono contrario? – rispose l’israeliano – Se mi dimostrate che Arafat è un socialista, che sostiene la pace ed esclude il terrorismo, anch’io voterò a favore. E cosa accadde? Andarono a parlare con Arafat. Credo siano stati loro a far cambiare Arafat. Mi aspetto che lo stesso accada con Hamas». Più chiaro di così.
Il potere israeliano ha due anime, insomma. Che convivono nella coalizione di governo. C’è il blocco di Netanyahu e dell’estrema destra di Naftali Bennett, che pretenderebbe una resa incondizionata dei palestinesi, e l’anima mediatrice di Lapid e della Livni, che spiegano di voler restare al governo proprio per «tenere in vita i negoziati». Il punto di rottura tra le due componenti, oltretutto, pare un altro: l’atteggiamento da tenere nei confronti dei coloni israeliani. Che negli ultimi tempi si stanno facendo più aggressivi, non solo espandendo gli insediamenti nei territori palestinesi, ma – ultimamente – con sempre più frequenti violenze contro gli arabi e contro lo stesso esercito israeliano.
Fino ad ora l’opinione pubblica israeliana ha indicato questo tipo di violenze con un eufemismo: la chiamano «contropartita» (letteralmente «il cartellino del prezzo»), la “legittima” reazione dei coloni per le minacce che ricevono. Ma il clima sta cambiando. La comparsa sui muri di diverse città di insulti razzisti contro arabi e cristiani ha provocato reazioni sdegnate anche in Israele. «È arrivato il momento di chiamare questi mostri col loro nome – è stata la durissima presa di posizione di Amos Oz, lo scorso 9 maggio –: volevamo essere come le altre nazioni, e ci siamo ritrovati con dei gruppi di ebrei neo-nazisti».
C’è stata anche una risposta politica: «Questi gruppi non condividono i valori dello Stato d’Israele – ha detto ancora Tzipi Livni, – sono loro che ci impediscono di raggiungere un accordo» coi palestinesi. Come a dire che se le cose non vanno per il verso giusto, non si può scaricare la colpa su Hamas.
Una parte di Israele sembra intenzionata a contenere le frange estremiste che operano nello Stato ebraico, per il bene dei negoziati. E persino a dialogare con Hamas, se questa proseguirà sulla strada della smilitarizzazione. Nonostante i profeti di sventura, il processo di pace israelo-palestinese non è ancora stato seppellito.