Malevitch, Autoritratto
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Tra le mostre viste quest’estate una difficilmente dimenticabile è quella di Kasimir Malevitch alla Tate Gallery di Londra. Malevitch è l’artista che nel 1915 realizzò una delle opere cardini del ‘900, il Quadrato nero, oggi conservato al Museo di Stato di Mosca. Un’opera di assoluta elementarità, che come lui disse voleva essere «espressione pura senza rappresentazione».
È un’opera che Malevitch pensò come reinterpretazione dell’icona, pittura che ritraendosi cerca di avvicinarsi ad un assoluto; tant’è che quando la espose ad una mostra personale a Pietrogrado, la collocò in un angolo della stanza, esattamente come venivano tradizionalmente collocate le icone. Ma non è su quest’opera di Malevitch che vorrei soffermarmi, bensì su una del suo ultimo periodo. È un autoritratto in cui l’artista si rappresenta nei panni quasi di un autore rinascimentale, con un punto di vista da sotto in su che rimarca un po’ retoricamente la solennità della posa. Sembra l’opera di un artista stanco, che dopo aver sperimentato la vertiginosa semplificazione del quadrato e di tutte le opere che ne derivarono (la stagione suprematista, cioè di un’arte libera da fini pratici ed estetici), si fosse arreso un po’ per esaurimento di quell’intuizione, un po’ per le troppe pressioni esterne.
L’arrivo al potere di Stalin, infatti, aveva comportato direttive molto precise per gli artisti, in direzione di un realismo di stampo socialista. Malevitch che aveva accompagnato la Rivoluzione con l’energia innovativa di questa sua pittura così radicalmente nuova e insieme così profondamente radicata nella storia russa, sembrò quasi rinnegare se stesso. È un artista quasi rassegnato ad essere quello che non avrebbe dovuto essere, a dipingere con uno stile per lui certamente anacronistico: eppure pur costretto ad essere straniero a se stesso, con questo autoritratto così ingenuo e insieme orgoglioso, ci dice una cosa che colpisce e anche commuove. Che la libertà di un artista vive anche dentro i muri di una costrizione ideologica ed estetica che può sembrare intollerabile. Che la sua coscienza può restare intatta, anche se non ha più spazi per esprimersi, anche se costretta ad una sorta di mutismo. Non a caso nell’angolo, il quadro al posto della firma ha un piccolo quadrato nero, dipinto come lo dipingerebbe un bambino. È un segno distintivo, che non ha più l’esatta definizione di un tempo. Non ha più quella forza, quella chiarezza, quella baldanza. Ma è lì, e riaffiora come riaffiorano le preghiere sulla bocca degli anziani. Balbettate, flebili, umili: fanno ormai corpo con il loro corpo. Il quadrato di Malevitch vive la stessa parabola. E nel momento dell’impotenza svela pienamente il suo valore.