Il Papa e la terza guerra mondiale
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La visita del Papa al sacrario militare di Redipuglia non è stata come altre. Non che altre vadano sminuite, anzi, solo che questa va colta nel suo valore in qualche modo storico, che non sta solo nella commossa memoria, a cento anni di distanza, di quell'”inutile strage” che fu la prima guerra mondiale. Qui, il 13 settembre, Francesco ha voluto guardare le croci degli uomini prima di celebrare la santa croce del Signore il giorno successivo (ed è bello l’accenno fatto in quella festività: la Chiesa esalta la Croce del Signore non le croci degli uomini). Qui, in un cimitero nel quale riposano le spoglie dei caduti della Grande Guerra, ha voluto affermare un’altra volta, in maniera più netta e decisa, pubblica, che oggi «si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni…».
Terza guerra mondiale, che è altro da una conflittualità diffusa che riguarda il mondo intero. Una conflittualità diffusa non è accidente nuovo della storia, c’è sempre stata, più o meno dilatata in un mondo abitato da conflitti tra popoli e nazioni. Quella di cui ha parlato il Papa è altra cosa: una terza guerra mondiale vera e propria.
Per fare una guerra ci vogliono i protagonisti: delle due precedenti si sa, ma chi sono i protagonisti di questa nuova guerra mondiale? Il Papa non li ha indicati, forse perché in un mondo in cui entità sovranazionali costituite da grandi gruppi finanziari e consorterie affaristico-culturali contano più dei singoli governi è difficile definire, forse per restare nell’implicito. Va bene così. Resta che ha declinato le motivazioni dei costruttori di questa guerra: «Interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro».
Come si vede nella declinazione del papa è assente l’ideologia, fosse anche quella religiosa dei fondamentalisti islamici che tanto orrore stanno seminando. L’ideologia, infatti, non è un fattore dello scontro, come vorrebbero giornali e analisti, ma semplice strumento. Serve, anzi è alimentata dagli «organizzatori dello scontro» (di civiltà in questo caso), ma non ne rappresenta un fattore fondante. Così, con due parole, il papa ha spazzato via le tante analisi sullo jihadismo, sul conflitto tra sciiti e sunniti, sulle motivazioni dello scontro tra civiltà occidentale e islam: le diverse ideologie, i fondamentalismi, i diversi estremismi, sono solo strumentali a interessi e strategie ben precise, nient’altro. Sono usate dai «pianificatori del terrore», che muovono i loro fili invisibili «dietro le quinte» del teatro del mondo.
Se siamo in una guerra mondiale, non in un periodo di diffusa conflittualità, una guerra mondiale che si dipana per conflitti successivi e senza soluzioni di continuità su diversi fronti (dall’Ucraina alla Siria, dalla Libia alla Nigeria, da Gaza all’Iraq), vuol dire che dietro questi confitti c’è un filo unitario che lega gli uni agli altri. Francesco non è voluto scendere nei particolari, né è il suo compito ché di mestiere non fa l’analista geopolitico ma il Papa.
Resta che questa guerra è generata da motivi «geopolitici» e «interessi» ben definiti: l’accesso alle fonti di energia e altre utilità strategiche, ovviamente (anche se non mancano, anzi, motivazioni più occulte). Utilità legate alla sete di «potere», da accrescere o per evitare di perderlo.
Indicativo anche il passaggio sui trafficanti di armi: l’industria bellica è uno dei pilastri dell’economia occidentale. Negli Usa è la più importante produzione industriale e trovare industrie private americane che non lavorino in qualche misura anche per questo comparto è cosa difficile. Ma ciò, in minor misura, accade in tutto l’Occidente (in Italia c’è Finmeccanica e altro): quindi le parole del Papa, che ha stigmatizzato l’idea di «volersi sviluppare mediante la distruzione», assumono vari connotati. Il primo, scontato, è che l’industria della guerra prospera durante i conflitti. Ne suggeriamo un altro forse meno scontato: è noto che gli Usa sono usciti da periodi di crisi grazie a delle guerre, dalla seconda guerra mondiale fino al Vietnam. Immaginare che vi siano ambiti che immaginino di far uscire l’Occidente da una crisi della quale non si vede l’uscita attraverso un’escalation di conflitti non è cosa pellegrina, anzi.
Ancora sugli armamenti: non esistono industrie di armi in Africa, non producono armi i Paesi arabi, semplicemente li comprano dall’Occidente o dalla Russia. Monitorare il traffico di armi sarebbe facile, ma frenerebbe interessi ben precisi (rinvenire sui media notizie circa il sequestro di un carico armi a seguito di un’inchiesta della magistratura è praticamente impossibile).
La guerra è una «follia» ha ribadito il Papa, che rievoca il cinismo cattivo di Caino, al quale «non importa» nulla del fratello, a ribadire la condanna divina su questa perversione. L’omelia tenuta a Redipuglia ha avuto un’appendice il giorno successivo, non solo, come scritto in precedenza, nell’esaltazione della Santa Croce, ma anche in un accenno al momento dei saluti, nel quale il Papa ha elogiato l’inizio della missione di pace dell’Onu nella Repubblica centrafricana, da tempo tormentata da un conflitto sanguinoso. Un cenno che è anche un’indicazione precisa: la strada della pacificazione passa anche attraverso un’istituzione come le Nazioni Unite, troppo spesso obliterata, colpevolmente, dai leaders mondiali.
«È l’ora del pianto», ha concluso il Papa guardando oltre le croci del sacrario militare le tante croci che questa guerra sta disseminando in tutto il mondo. Parole sostenute dalla preghiera del Signore, ché la messa, durante la quale Francesco ha tenuto la sua omelia, è la preghiera del Signore, il quale ha promesso di rispondere, e presto, alle richieste dei suoi che sono in pena. Così che quel pianto non sia disperato (a questo proposito segnaliamo anche l’articolo pubblicato nella rubrica Come in Cielo).
Ps. Era previsto che Renzi accogliesse il Papa a Redipuglia. Non è stato così. Semplice contrattempo, hanno minimizzato dal Vaticano e dall’entourage del presidente del Consiglio. E però questo contrattempo assume, nella sua minuzia, un valore simbolico, stante che Renzi ha aderito con entusiasmo e senza riserve alla campagna militare che va profilandosi in Iraq (e altro). Non una dichiarazione di guerra, ma è evidente, al di là dell’episodio, che sul tema esiste una distanza, indotta o meno, con il Papa.
Non è saltato, invece, l’incontro, meno interessante da un punto di vista dell’immagine (alla quale il presidente del Consiglio sembra tenere molto), con i porporati italiani di alcuni giorni prima. Misteri del renzismo, gloriosi o dolorosi che siano, nei quali non ci addentriamo.