In morte di Reynhaneh
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Ha fatto scalpore il caso della povera Reynhaneh Jabbari, la donna iraniana accusata di aver ucciso l’uomo che voleva usarle violenza e impiccata dopo lungo processo. La stampa internazionale accusa ancora una volta l’Iran di essere preda dei suoi demoni, uno Stato retrogado nel quale i diritti dei cittadini sono conculcati, e a maggior ragione quelli delle donne.
Non che sia possibile negare che le donne iraniane godano di minori diritti rispetto a quelle che vivono in uno Stato occidentale (ma forse più delle donne che abitano i Paesi del Golfo ai quali l’Occidente non imputa alcunché). Ma nonostante questo, resta che l’insistenza con la quale i media trattano tale vicenda merita qualche domanda.
Francesco Santoianni, sul suo sito, ha analizzato il processo e ha evidenziato le circostanze emerse durante il dibattimento che hanno portato alla condanna della povera donna.
Leggiamo: «Prima tra tutte un sms inviato il giorno prima dell’omicidio nel quale Reyhaneh Jabbari comunica ad un suo amico di volere uccidere Morteza Abdolali Sarbandi. Poi ci sono tante altre cose che non tornano nell’alibi della ragazza: le coltellate date – non già frontalmente – ma alle spalle dell’uomo; la porta della stanza del “tentato stupro” non chiusa dall’uomo; il coltello (usato per l’omicidio) acquistato da Reyhaneh Jabbari alcuni giorni prima; la circostanza del coltello messo dalla ragazza, prima dell’incontro, nella borsa […]; il presunto ingresso nella stanza – immediatamente dopo l’omicidio – di una persona (rimasta non identificata) che, a dire della ragazza, sarebbe andato in cucina a prendere alcuni fogli…
».
I media occidentali hanno insistito sul fatto che la donna avesse dovuto rinunciare si suoi legali, mentre Santoianni spiega che questi hanno rinunciato a causa delle prove schiaccianti esibite dall’accusa.
In effetti, a ben vedere, ci si trova in presenza di indizi concordanti che indicano un assassinio volontario più che una legittima difesa. Il motivo per il quale Reynhaneh è stata condannata (sicuramente a torto nella forma della pena, ma purtroppo l’Iran non è l’unico Stato a prevedere la condanna a morte per un omicidio).
In altro articolo dedicato alla vicenda, Santoianni si interroga anche sul testamento lasciato da Reynhaneh, che ha fatto il giro del mondo commuovendo milioni di persone. Il documento è stato diffuso solo in questi giorni, dopo la morte della donna, ma è datato il 1 aprile, diversi mesi fa. Reynhaneh, infatti, sembra aver consegnato tale messaggio subito dopo aver appreso della sua condanna a morte.
La prima criticità che presenta tale documento è che a diffonderlo è stato il National Council of Resistance of Iran, organizzazione classificata come terrorista negli Usa fino a pochi anni fa, per poi essere riabilitata. Associazione che si muove in parallelo ad altri organismi che a detta dell’Occidente rappresentano i cosiddetti ribelli “moderati” che lottano per la liberazione della Siria, che poi tanto moderati non sono, anzi. Resta inspiegato come e perché tale organismo abbia avuto tale documento.
Il testamento risulta, a detta di quanti lo hanno diffuso, la «trascrizione di un messaggio vocale» (d’altronde è lei stessa a spiegare nel testo: «Non posso scrivere questa lettera dall’interno della prigione con l’approvazione delle autorità»). Non si sa quando e dove sarebbe avvenuta la registrazione del messaggio (ché di questo si tratta, a stare alla forma del documento e non di una semplice comunicazione orale), né si sa a chi la donna lo abbia affidato, non certo alla madre che ne è destinataria finale. Ma al di là delle reticenze, magari giustificate da motivi di tutela, la cosa singolare è che tale testamento, invece, presenta una struttura non “verbale”, ma “scritta“, come risulta chiaramente dalla sua lettura.
È possibile che nella trascrizione sia stata apportata qualche modifica per adattare il “parlato” allo scritto, ovvio, ma forse era meglio restare alla forma originale per non destare inutili domande. Tra queste, quella legittima: se si è manipolato il documento, quanto a fondo lo si è elaborato?
L’altra domanda è ancora più semplice e legata alla prima: perché se si ha in mano una registrazione diffonderne una trascrizione? Esiste Youtube, che ha diffusione mondiale: e per ovviare alle difficoltà linguistiche (la lingua persiana – il farsi – non è molto nota) sarebbero bastati dei semplici sottotitoli in inglese. Se lo scopo era appunto di denuncia, quale migliore arma che la viva voce, peraltro densa di emozioni, dell’accusatrice? Ma forse prima o poi tale registrazione verrà messa online e si potrà verificare la corrispondenza tra la voce narrante e quella di Reynhaneh, ad oggi impossibile.
Insomma la vicenda pone alcune domande, tra le quali la più importante è quella relativa all’eco mediatica della vicenda. Si tratta di un processo come tanti ce ne sono nel mondo, che ha assunto però un valore simbolico. Non si registra tale eco per processi che riguardano le molte condanne a morte comminate negli States, anche a persone talmente povere da non potersi pagare un avvocato adeguato. Né per le tante donne alle quali sono comminate pene analoghe nei Paesi del Golfo (Santoianni accenna a «quattordici donne» saudite che rischiano la decapitazione per «stregoneria», un’accusa ben più risibile di un omicidio).
Certo, è possibile che si sia trattato di un errore giudiziario, e forse anche di una vera e propria persecuzione, anche se le domande esposte in precedenza restano, ma vicende simili accadono anche in altre latitudini, e non solo nei Paesi arabi. Di certo questa enfasi mediatica getta una luce oscura sull’Iran: uscito da un cono d’ombra con la vittoria del moderato Rohani, il procedimento contro Reynhaneh è utilizzato come una clava per far intendere che nulla è cambiato.
Anche la tempistica ha certa importanza: a fine novembre è prevista la ripresa del negoziato sul nucleare iraniano, trattativa che vede impegnata a fondo l’amministrazione Obama ma che suscita la contrarietà di potenti ambiti Usa, del governo israeliano e dei Paesi del Golfo. Una trattativa che attraverso la soluzione dell’annosa controversia potrebbe sdoganare Teheran dopo decenni di emarginazione dal consesso internazionale. Immaginare che la vicenda processuale della povera Reynhaneh sia usata per mettere in dubbio la positività di questa trattativa è ipotesi azzardata. Ma di fatto è quello che sta accadendo.