Impressioni da Roma
Tempo di lettura: 2 minuti(Fotografia Massimo Quattrucci, testo Fabio Pierangeli)
Mi piacciono i volti stupiti e ammirati dei ragazzi di fronte all’incredibile bellezza di Apollo e Dafne di Bernini. Aveva 25 anni quando la scolpì.
Patrizio Barbaro, carissimo amico, scrittore, regista di documentari sugli scrittori, giornalista, scomparso troppo presto: il 29 settembre del 1999, 15 anni orsono. Ecco il ricordo di uno dei più interessanti scrittori della generazione nata negli anni Sessanta, Dario Buzzolan:
«Di Patrizio, appena conosciuto, mi colpì immediatamente la capacità di stupirsi. È una delle qualità che più mi toccano nelle persone. Perché lo stupore – non so se sono in grado di spiegarlo, e poi altri lo hanno detto molto meglio di me – è come uno sguardo il cui campo visivo sia stato moltiplicato all’indefinito. È l’inatteso a stupire. Per questo credo che la conoscenza, quella vera, passi necessariamente attraverso lo stupore: perché significa apertura, libertà, imprevedibilità.
Di questo sguardo era capace Patrizio, me ne accorsi subito persino io che ci metto un po’ a capire gli altri. Patrizio parlava di Campana e di giovani autori semisconosciuti, montava raffinati special tv sugli scrittori e curava regie di programmi assolutamente “di servizio”. Tutto con la stessa classe, e con lo stesso entusiasmo. Apertura era la sua parola.
Cominciai a vedere i suoi speciali, quegli Scrittori raccontano che troppi, in seguito, hanno riproposto come farina del proprio sacco, trovandoseli comodamente confezionati nelle teche Rai. Lo conobbi anche attraverso la sensibilità di quei montaggi, di quelle scelte, di quegli itinerari intellettuali.
Nel frattempo era uscito il mio primo romanzo, Dall’altra parte degli occhi. Decisi di farlo leggere a Patrizio. Lo lesse, lo recensì. Con stupore, con entusiasmo. Mi fece avere anche una lettera, bellissima. Era scritta a computer, ma con un’annotazione a penna che voglio riportare: “Perdona un po’ di retorica. Non l’ho fatto apposta. La mano ha camminato da sola sulla tastiera”.
Stupore, entusiasmo, ancora una volta. Anche della propria scrittura.
Gli risposi che ero contento. Perché sapevo che io e lui avevamo molto da dirci.
Era vero ma non è stato possibile.
A quasi tre anni di distanza, vedere pubblicata gran parte dell’opera scritta da Patrizio – con quel frammento finale di racconto che fa rabbia per la sua incompiutezza – attutisce almeno di un poco lo sgomento di quell’interruzione. Non abbastanza, purtroppo.
Il resto si gioca dentro. Per me, per voi che siete qui oggi, Patrizio resta. Come esempio, come stimolo. Per questo vorrei salutare la sua permanenza con le parole con cui Alberto Savinio chiudeva il suo Vita di Enrico Ibsen: “Addio, per ora. Sbrigo queste quattro faccende ancora, poi verrò a raggiungerti. Dovunque tu sia; anche nell’inesistente. Anzi meglio lì. Quando ci si capisce, che importa esistere?”».