La guerra all'Isis e la fragilità di Obama
Tempo di lettura: 2 minutiIl conflitto contro l’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante che sta spargendo la sua follia in Iraq e in Siria, è confuso, stante che «si stanno combattendo contemporaneamente, nella regione, guerre diverse». Così Sergio Romano sul Corriere della Sera del 10 novembre. «Per le democrazie occidentali e per gli Stati laici del Medio Oriente il nemico è rappresentato dalle diverse componenti jihadiste della società musulmana […]. Per le monarchie e gli emirati sunniti del Golfo il principale nemico è la Shia», ovvero il ramo musulmano sciita. «Gli Stati sunniti, come l’Arabia Saudita e il Qatar, temono l’Isis anche perché lo considerano un pericoloso concorrente sul piano religioso; ma non possono dimenticare che il movimento del “califfato” può essere un alleato utile, anche se inconfessabile, contro gli sciiti là dove hanno conquistato il potere: l’Iran degli ayatollah, l’Iraq dopo la sconfitta del sunnita Saddam Hussein, la Siria di Beshar Al Assad».
Inoltre, secondo Romano, il fronte anti-Isis non ha trovato la collaborazione della Turchia perché il presidente Erdogan è oggi particolarmente preoccupato della popolarità di cui i curdi godono nella società internazionale. E chiude spiegando che «Barack Obama non ignora che la battaglia contro l’Isis avrà successo soltanto se condotta con la collaborazione dell’Iran e della Siria di Beshar Al Assad. Ma è costretto a farlo clandestinamente (come sembrerebbe dimostrato da una sua recente lettera all’ayatollah Khamenei) per evitare le critiche e le accuse che gli pioverebbero addosso nell’affollato mondo dei suoi avversari politici».
Nota a margine. Se alcuni cenni dell’analisi di Romano ricalcano tesi note (e a volte hanno il difetto dell’eccessiva schematizzazione che ne attutisce l’efficacia: un problema delle sintesi) appare invero interessante la parte finale della nota: fino a qualche decennio fa sarebbe stato semplicemente impossibile immaginare un presidente degli Stati Uniti che organizza una campagna militare per rispondere a una minaccia manifesta costretto a muoversi nella clandestinità.
Una fragilità della figura del Presidente degli Stati Uniti che solo in parte può essere spiegata con la scarsa personalità dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Gli è che il mondo è cambiato e il potere risulta decentratato rispetto al passato. Lo si è visto anche con il precedente inquilino della Casa Bianca, quel George W. Bush che sembrò a tanti soltanto un più o meno solerte esecutore di progetti nati altrove, nel caso specifico in ambito neocon.