Lucio Fontana, Attese, 1958
Tempo di lettura: 2 minutiMario Boschi, grande collezionista milanese del dopoguerra, ricordava sempre questo episodio, che pur nel suo piccolo segna un passaggio importante nella storia dell’arte del ‘900. Boschi collezionava opere di Lucio Fontana e andando spesso nel suo studio aveva notato una tela preparata con una stesura di anilina verde.
Il colore l’aveva colpito e in cuor suo si era ripromesso di comprare il quadro quando Fontana l’avesse finito. Un giorno arrivando, trovò la tela, aperta da una serie di tagli verticali, molto mossi e ordinatamente paralleli. Ci fu un attimo di sconcerto, poi Fontana gli spiegò che quello era il quadro finito. Per essere collezionisti si deve essere anche coraggiosi. Boschi lo era e quindi comperò il quadro come si era ripromesso, nonostante lo spiazzamento.
Oggi quella tela, che fa ancora parte della collezione che Boschi con la moglie Di Stefano lasciò al Comune di Milano, è stata esposta ad inizio di percorso della più bella mostra in corso a Milano: quella dedicata al rapporto tra Lucio Fontana e Yves Klein. Inutile precisare che, se si dovesse guardare al valore che oggi quell’opera ha sul mercato, il coraggio è stato ampiamente premiato…
A Milano questi primi tagli di Fontana sono esposti a fianco di un capolavoro di Umberto Boccioni, Quelli che partono, dipinto nel 1911. Un affiancamento rivelatore perché evidenzia come un’opera di premeditata rottura come quella di Fontana, in realtà sia in assoluta continuità con una tela del più grande maestro del nostro futurismo. E il titolo stesso lo testimonia. Al consueto “concetto spaziale” con cui Fontana definiva ormai sempre le sue opere, proprio per sottolineare l’idea che era stata superata l’immagine tradizionale di quadro, venne aggiunta la parola “Attese”.
I tagli quindi sono la rappresentazione di una situazione umana molto ben definita: quella dell’attesa. Il movimento delle linee, il senso di sospensione suscitato dal vuoto aperto nella tela, l’idea che quei tagli evochino con molta delicatezza delle ferite, tutto spinge a persuaderci che “Attese” è davvero il titolo giusto per questo quadro. Fontana, senza retorica e con una leggerezza propria dei grandi, documenta dunque una condizione umana, che era innanzitutto sua, ma che era condivisa da tanti.
L’esperienza dell’attesa però può essere raccontata per metafore, può dar luogo a virtuosismi poetici, a ricami sentimentali. Fontana invece fa qualcosa di molto più semplice e diretto. Traduce l’attesa in un gesto, e il quadro non è altro che la traccia lasciata da quel gesto. L’artista non aggiunge altro, per dire in cosa consiste “l’attimo prima” (perché attesa è sempre attesa di qualcosa, o di qualcuno). Quell’attimo in cui si è tesi verso un qualcosa o qualcuno che potrebbe (ma anche no) palesarsi. Un qualcosa/qualcuno di non preventivabile e per il quale non conta farsi forti con le corrette precondizioni.
Post scriptum. Inutile dire che la grandezza di Fontana stia anche nella sua ironia. Così, per scaricare queste sue opere dal rischio di attribuirvi troppi significati, sul retro delle tele scriveva sempre, a mo’ di firma, dei brevi testi paradossali e senza senso· Ad esempio: «Questa volta mi sono sbagliato, un’altra volta no». «Il primo giugno non è / il primo maggio». Come dire: l’artista non è altro che un giullare di Dio…