Libia: caccia al tesoro
Tempo di lettura: 2 minuti«Si tratta di una partita sotterranea, visibile solo a pochi, ma capace di produrre ripercussioni ogni giorno sulla sponda Sud del Mediterraneo»
, scrive Fabio Fubini sulla Repubblica del 5 marzo. La partita cui accenna è il controllo delle partecipazioni «del fondo sovrano Lybian investment Authority (Lia)». che oggi valgono 50 miliardi di dollari di partecipazioni sparse in tutto il mondo e che non hanno un legittimo proprietario «perché il regime di Gheddafi è crollato prima di riuscire a smobilizzare le sue partecipazioni»
. Si tratta di soldi investiti nella Pearson, gruppo proprietario del Financial Times, «società americane della difesa come Halliburton o del petrolio come Chevron e Exxon Mobil»
, ma anche nell’Eni, il gruppo aerospaziale Lagardère, Unicredit, Finmeccanica, la società di calcio Juventus.
Anche la Banca centrale libica ha un tesoro di fatto congelato, continua Fubini: «100 miliardi di dollari, frutto di decenni di surplus petroliferi»
, che giace «in decine di depositi bancari in Italia, in Europa e negli Stati Uniti»
. Ad amministrare queste riserve «un gruppo di economisti e uomini di affari libici»
, ma «secondo negoziatori occidentali esse sono in gran parte congelate
».
Nota a margine. La Libia, preda di una guerra civile senza fine (a seguito del disastroso intervento Nato del 2011), oggi deve fare i conti anche con lo spettro dell’Is. Stabilizzare la situazione è auspicabile e di questo compito è stato investito l’Onu, in una serie di negoziati che vedono la partecipazione più interessata di alcuni Stati: dall’Inghilterra alla Francia, dall’Italia all’Egitto agli Stati Uniti. Ma la cosa è complicata proprio per le tante, troppe ricchezze del Paese, quelle accennate in nota e l’oro nero di cui il Paese è ricco. Chi gestirà la stabilizzazione potrà trarre un beneficio non indifferente da queste risorse. Da qui le tante complicazioni sulla necessaria azione stabilizzatrice.