La strage di Charleston e le presidenziali Usa
Tempo di lettura: 3 minutiÈ iniziata ufficialmente la campagna elettorale che dovrà decidere chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Alla fine della scorsa settimana i due contendenti più attesi, Hillary Clinton e Jeb Bush, hanno sciolto le riserve e sono scesi in campo, la prima per i democratici, il secondo per i repubblicani. Dovranno passare al vaglio delle primarie dei rispettivi partiti, ma intanto l’annuncio quasi contemporaneo delle loro candidature, da tempo attese, segna l’avvio della lunga corsa.
Una corsa subito funestata dall’ennesima strage che ha sconvolto l’America di Obama (sotto la sua presidenza si sono susseguite a ritmo incalzante).
Luogo dell’eccidio è Charleston, dove il giovane Dylann Storm Roof, un Brevnik made in Usa (il killer che fece strage in Norvegia), ha compiuto un eccidio nella storica chiesa episcopale metodista African Emanuel, frequentata dalla comunità afroamericana.
Nove le vittime, tra quali il reverendo Clementa C. Pinckney, che tra l’altro aderiva al partito democratico ed era membro del Senato della Carolina del Sud.
Il movente dell’eccidio pare sia razziale e gli inquirenti ad oggi escludono che vi sia dietro il giovane omicida una organizzazione terrorista, anche se è indubbio che il ragazzo si sia nutrito di suggestioni e ideologie fondamentaliste nate nell’ambito dei vari movimenti estremistici che stanno dilagando negli Usa (i fondamentalisti non abitano sono l’islam…).
Tanti questi movimenti sparsi sul territorio: dal famigerato Klu Klux Klan ai tanti cenacoli suprematisti che propugnano la supremazia della razza bianca, per finire con i circoli più esplicitamente neonazisti. Movimenti tutti che hanno piena libertà di espressione, di armamento e anche di influenza in ambito politico. Libertà loro garantita da una Costituzione di manica larga, che però su tale tema, e su altro (la possibilità di girare armati ad esempio), forse risente del tempo passato dal momento che non siamo più nel selvaggio West.
Un lupo solitario dunque, questo Dylann, subito catturato. E però, come accenna Guido Olimpio sul Corriere della Sera del 19 giugno, è indubbio che, come altre stragi similari avvenute negli States in passato, in questo eccidio vi sia «una componente terroristica». Il ragazzo non ha colpito a caso, ha attaccato un «tempio simbolo» per la sua storia e la sua antichità, e ha scelto con cura le sue vittime, lasciando vive altre perché raccontassero quel che avevano veduto (come ha urlato lui stesso ai sopravvissuti) per aumentare l’effetto terroristico.
Obama ha lamentato che le reiterate stragi sono conseguenza anche della mancanza di una legge sul controllo delle armi, da sempre osteggiata con successo dalle lobby del settore. Un limite evidente della democrazia Usa, che ai diritti dei cittadini, anche quello alla vita, premette gli interessi dei fabbricanti d’armi, in grado di condizionare pesantemente i membri del Congresso al di là dei “desiderata” dei loro elettori. Tant’è.
L’eccidio, come detto, cade proprio all’inizio delle presidenziali Usa, sorta di promemoria per il futuro presidente, il quale erediterà dall’era Obama tanti problemi, sia quelli internazionali che quelli provenienti dal fronte interno, uno dei quali è appunto la recrudescenza del conflitto razziale.
Sia Hillary che Jeb hanno reagito all’attentato come presidenti in pectore, con tweet consoni al compito che potrebbe attenderli. In più Jeb ha dovuto annullare la sua visita a Charleston, prevista proprio per il giorno successivo alla strage. Imprevisti del mestiere.
La corsa per eleggere il futuro presidente Usa è lunga e sono tante le incognite di questo duello, che si prospetta, come e più di altre volte, all’ultimo sangue. Ad accentuare il patos il fatto che dopo la presidenza del debole Obama, che pur con i suoi gravi limiti ha comunque tentato di frenare l’assertività americana nel mondo, i neocon vogliono tornare saldamente al potere dopo averlo gestito direttamente nel post 11 settembre. E questo sia che vinca l’uno sia che vinca l’altra (ma al momento, per antiche prossimità, i loro cuori battono per la liberal Hillary).
Sulle presidenziali e sui due principali candidati torneremo a scrivere in altra sede. In questa ci limitiamo a registrare come la disfida tra la Casata dei Clinton e quella dei Bush, che dura da oltre vent’anni, sia rappresentazione icastica di quella deriva aristocratica della quale ormai sono preda gli Stati Uniti d’America, sia sul piano economico-finanziario, egemonizzato da un’élite di oligarchi, che su quello politico (Obama è eccezione che conferma la regola).
Una deriva che difficilmente sarà sanata nel caso di vittoria di uno dei due contendenti in questione, proprio perché ambedue ne sono chiara espressione.