L'estate della tempesta perfetta made in Cina
Tempo di lettura: 5 minutiÈ stata l’estate della Cina e dell’incubo della tempesta perfetta. Una tempesta che avrebbe potuto trascinare nell’abisso l’economia globale già in crisi, tirata giù dall’improvviso – paventato – collasso del gigante asiatico, da decenni locomotiva dell’economia planetaria grazie al suo sostenuto tasso di crescita.
Tante e diverse le analisi su quanto avvenuto nel chiuso del più o meno impenetrabile ex Celeste impero.
Le tesi più accreditate vedono il crollo delle Borse del gigante asiatico causato dall’insana commistione finanza-Stato che avrebbe spinto tanti risparmiatori cinesi verso investimenti folli. E dall’improvviso ritrarsi dal Paese della finanza internazionale, generato dal timore dell’esplosione dell’inevitabile bolla.
Timore ingigantito dal fatto che il crollo delle Borse è parso a tali ambiti finanziari il primo segnale dello scoppio della grande bolla cinese da tempo prefigurato, che secondo diversi economisti verrebbe innescato dal rallentamento (questo sì reale) dell’economia del Dragone e dagli squilibri generati del parossistico quanto disordinato sviluppo pregresso, ai quali lo Stato imprenditore sarebbe incapace di far fronte.
Insomma, cause reali e cause virtuali come accade spesso in casi del genere (quanto agli squilibri, basta pensare a quelli che abitano l’economia e la finanza occidentale dove impera il libero mercato).
Sono analisi che si basano sul principio della legge del mercato, dogma che vede i capitali della finanza internazionale vagare liberi da ogni ingerenza, alieni dalle dinamiche e dagli scontri geopolitici che abitano il mondo. Un modo come un altro per spiegare cose.
Resta quanto ha scritto con onestà intellettuale sulla Repubblica del 25 agosto il premio nobel per l’economia Paul Krugman: «Che cosa ha provocato il crollo improvviso delle Borse? Che cosa implica ciò per il futuro? Nessuno lo sa».
Della Cina ci eravamo occupati in un precedente scritto, accennando alle tante iniziative messe in cantiere dai nuovi leader di Pechino, in particolare la creazione della banca dei Brics e la spinta verso una nuova architettura monetaria internazionale, con conseguente ridimensionamento del ruolo del dollaro.
A queste iniziative va aggiunto un più stretto rapporto con Putin, che ha permesso alla Russia di sostenere senza eccessivi danni il peso delle sanzioni internazionali. E ha consentito alla Cina, la cui forza militare (termine da intendersi nel senso più ampio), nonostante le apparenze, è ridotta, di poter partecipare della potenza bellica che ancora abita a Mosca.
Un rapporto, quello con la Russia, già presente con i precedenti governi, ma con una ambiguità di fondo (residuo di antiche diffidenze e di nuove convergenze con l’Occidente) che l’attuale dirigenza ha superato.
Un rilancio della potenza militare cinese che è tutt’uno con l’assertività che Pechino sta dispiegando nel teatro geopolitico asiatico, causa di contrasti con i Paesi limitrofi – primo fra tutti il Giappone -, sostenuti attivamente dagli Stati Uniti che nell’espansione della sfera di influenza cinese nel Pacifico (e altrove) vedono una minaccia al libero dispiegarsi della propria potenza globale.
Né va dimenticato che il presidente Xi Jinping ha dato vita a un programma di riforme ambizioso, che vuole fare della Cina non più un accessorio necessario al traino dell’economia globale, ma una nazione moderna e competitiva anche per quanto riguarda il benessere interno.
La tempesta economico-finanziaria di questa estate, preceduta e accompagnata dal devastante incidente di Tianjin, è capitata proprio mentre Pechino si stava riposizionando in maniera frenetica sullo scacchiere internazionale.
La dirigenza cinese, lanciata a bomba sulle nuove direttrici geopolitiche, si è trovata così a fronteggiare sfide impreviste.
Per Giampaolo Visetti la crisi che ha sconvolto la Cina è ben più grave di quanto si sia percepito. Sulla Repubblica del 25 agosto scrive che «più che a Shangai e a Hong Kong il mondo guarda […] a Pechino, più che il panico degli investitori valuta i silenzi dei suoi leader, più che all’imprevisto crollo del Giappone anni Ottanta torna con la memoria all’improvvisa implosione dell’Urss anni Novanta» (titolo articolo: Tramonta l’epoca d’oro Dragone fuori controllo e la leadership trema).
Una immagine più suggestiva che reale quella descritta dal cronista, ma che rende l’idea della drammaticità di quanto si è consumato questa estate e della posta in palio di questa partita. Immagine irrealistica, ribadiamo, dal momento che l’economia globale non può permettersi la disgregazione del Dragone, e però appare meno irreale se si tiene conto che il mondo post 11 settembre è attraversato e agitato da un cupio dissolvi sconosciuto al passato.
Ancora Visetti, stavolta sulla Repubblica del 27 agosto, racconta dello scontro di potere che si è consumato in questi anni a Pechino e dei suoi strascichi: «Migliaia di alti funzionari e generali arrestati per corruzione, gli emarginati avversari della sinistra interna, i governatori sotto pressione per i debiti, non aspettavano che il primo passo falso di Xi, accusato di “aver umiliato il partito”. A Pechino si assicura che si sia saldato il vecchio asse tra gli ex leader Jiang Zemin e Hu Jintao, sostenuto dall’ex premier Wen Jiabao, prossime vittime delle purghe presidenziali, e che non sia un caso che l’epicentro del caos sia Shanghai, roccaforte di Jiang». Articolo che continua spiegando come «la bomba dei conservatori» è «pronta a travolgere “il solista” Xi Jinping» allorché il tasso di crescita promesso dal Presidente non sarà realizzato (titolo articolo: Lo tsunami travolge il “nuovo Mao” e il potere di Pechino).
Immaginare il presidente Xi Jinping come un uomo solo al comando suona alquanto riduttivo: non è possibile governare da soli una nazione tanto grande e complessa. E però queste righe rendono l’idea dello scontro segreto che ha agitato e agita le viscere del Dragone.
Ad oggi la tempesta sembra placata, ma resta da vedere se davvero il peggio è alle spalle. Le autorità, oltre a varare le opportune contromisure finanziarie, hanno reagito con durezza, arrestando circa duecento tra giornalisti, broker e analisti finanziari, colpevoli, a loro parere, di aver contribuito con la loro disinformazione a scatenare il panico e a drogare il mercato. Un modo anche per mandare un segnale ad avversari interni ben più importanti.
Ma la prova di forza di Pechino non è solo rivolta all’interno: per il 3 settembre è stata annunciata una parata militare per celebrare la vittoria della Seconda guerra mondiale. È la prima volta che avviene e appare una dimostrazione muscolare per comunicare al mondo che la Cina è ancora salda. Un annuncio che ha suscitato contrarietà nel mondo occidentale, che ha visto in questo sfoggio di potenza bellica una rinnovata sfida al Giappone (lo sconfitto di allora nel teatro bellico asiatico).
Come avvenuto per la commemorazione analoga tenuta a Mosca nel maggio scorso, anche in questa occasione le autorità occidentali sembrano intenzionate a disertare. Al di là delle nobili motivazioni, una simile decisione, peraltro ancora eventuale, sarebbe di fatto una sfida al Dragone, come avvenne allora con la Russia. Una sfida consumata su un tema, quello della lotta al nazi-fascismo, che dovrebbe unire più che dividere. Tant’è.
La partita è ancora lunga e tante le variabili in campo. Resta da capire quali strascichi interni e internazionali avrà quel che si è consumato in Cina in questa problematica estate, se cioè le prospettive geopolitiche della nuova dirigenza ne usciranno ridimensionate o meno e se la stessa sarà in grado di fronteggiare gli avversari interni.
E però Xi Jinping e i suoi finora hanno dimostrato di saper manovrare in maniera adeguata il timone del gigante asiatico e di saperne gestire le immense risorse. Chi immagina un subitaneo ridimensionamento del Dragone, come avvenuto in tante analisi mediatiche di questa estate, rischia di confondere il virtuale con il reale.