Pray for Paris
Tempo di lettura: 4 minutiParigi brucia. Era stato annunciato, si sapeva, eppure tutto è andato come doveva andare. I capi dell’Isis l’avevano minacciato più volte, il giudice anti-terrorismo Marc Trevedic già lo scorso ottobre aveva predetto un prossimo 11 settembre per la Francia. Eppure, a quanto pare, non è stata presa alcuna misura di prevenzione adeguata.
Tante oggi le voci che spiegano come sia impossibile controllare, prevenire, se si considera il numero di islamici presenti in Francia: sei milioni. Come cercare un ago in un pagliaio. E però quelli entrati in azione ieri a Parigi non erano killer improvvisati: si tratta di professionisti, come dimostra il modo con cui hanno fatto strage al Bataclan, dove hanno agito con freddezza, ricaricato tre volte, freddato alcuni degli ostaggi con colpi alla nuca.
Killer preparati e addestrati, abituati a uccidere a sangue freddo. Veterani delle guerre siriana e irachena, probabilmente. Come è accaduto per la strage di Charlie Hebdo. Il che restringe di molto il campo delle persone che dovevano essere “attenzionate” dall’intelligence: qualche centinaio di persone. In effetti, lo si è scoperto dopo, gli assassini di allora erano stati attenzionati. Da vedere se anche quelli uccisi ieri lo siano stati (almeno uno di loro sembra fosse noto come soggetto radicalizzato…).
E ancora: sette i luoghi presi di mira ieri, a creare un fronte allargato e di difficile gestione. «Si tratta di attacchi coordinati e diversificati […]. Un’operazione ben preparata e coordinata
», ha spiegato al Corriere della Sera Jean Guisnel, professore alla scuola militare Saint Cyr ed esperto di terrorismo. Il quale conclude la sua intervista spiegando come la strage di Charlie Hebdo non abbia insegnato nulla. «Mi sembra che questa notte tremenda ne sia la tragica dimostrazione
», ha chiosato.
Considerazione che si unisce a un’altra: un attacco del genere presuppone una organizzazione ben radicata. Sempre sul Corriere, Guido Olimpio accenna a sopralluoghi, verifiche, soprattutto «covi d’appoggio nelle vicinanze». Attorno ai sicari doveva quindi esserci una rete ben più articolata dei soli esecutori materiali. Una rete fatta da persone più o meno consapevoli dello scopo finale dell’azione, secondo la dinamiche proprie della compartimentazione tipica delle agenzie del terrore.
Una rete che è rimasta nascosta ai servizi di sicurezza e che è stata in grado non solo di dare supporto logistico, ma anche di fornire armi, munizioni ed esplosivo ai suoi agenti, sempre sotto gli occhi distratti dell’intelligence. Un apparato, tra l’altro, che sarà costato un occhio della testa. E qui torniamo alle solite domande: chi finanzia l’Isis? Chi compra il suo petrolio? Chi compra i tesori archeologici che contrabbanda? Domande di non difficile risposta per degli apparati di sicurezza un po’ più attenti.
Ma al di là degli evidenti quanto tragici deficit dell’intelligence, resta da capire quel che accadrà. La scena del presidente Hollande esfiltrato dallo Stade de France ricorda quella dell’imbelle Bush post 11 settembre caricato a forza sull’Air Force One.
Allora gli Stati Uniti caddero nelle mani dei neocon, i quali, con le loro guerre, hanno destabilizzato il mondo arabo contribuendo non poco ad alimentare la macchina del terrore (Isis compreso). Accadrà lo stesso dopo l’11 settembre francese? Questo lo scopo ultimo dell’azione parigina, seminare paura per scatenare una reazione: le agenzie del terrore vivono e prosperano nel conflitto.
Un conflitto chiamato impropriamente scontro di civiltà se si considera che il Califfato conta qualche decina di migliaia di affiliati, molti dei quali semplici mercenari; gli islamici sono più di un miliardo e sono anche loro vittime della follia pseudo-islamista (come ha dimostrato anche l’orrendo attentato a Beirut dei giorni scorsi). Constatazione banale ma che sfugge a una lettura semplicistica della realtà.
Ci sarebbe una strada alternativa, quella indicata dalla Russia e da mesi snobbata dai suoi disinteressati interlocutori: l’unione della comunità internazionale contro il nemico comune. Da tempo la Russia martella obiettivi Isis in Siria, costringendolo ad arretrare, dopo che questi era dilagato nel Paese sotto gli occhi compiaciuti di quanti sognavano la caduta di Assad (tra i quali va annoverato, tragica ironia della sorte, l’Eliseo). Eppure l’azione di Mosca è motivo di accesa irritazione presso le cancellerie occidentali.
E ancora: ieri in Iraq i curdi hanno strappato all’Isis Sinjar, città strategica perché collega Mosul con Raqqa, ambedue sotto il controllo nemico. Quei curdi che sono bersaglio dei raid turchi, Paese membro della Nato…
Dopo il vertice di Vienna, convocato da russi e dall’amministrazione americana per cercare vie di pace in Siria, c’è stato l’abbattimento dell’aereo russo sul Sinai ad opera dell’Isis. Prima del vertice successivo, tenuto oggi (sempre a Vienna), l’orrore parigino. Eppure, nonostante le forze contrarie, resta questo il luogo e l’occasione per tentare di arginare il terrore. Mettere fine al tumore siriano (e di conseguenza iracheno) per evitare che continui a mettere in circolo le sue metastasi, da Beirut a Parigi (a Roma?).
Ma perché si riesca nel tentativo occorre mettere da parte gli interessi divisivi che favoriscono solo la crescita del terrore «Made in Isis».
PrayforParis è l’hashtag che da ieri sera circola su twitter. Lo rilanciamo a chiusura del nostro povero articolo, per ricordare le vittime di questa tragedia e la vera natura della sfida in atto: non un conflitto tra civiltà, ma una sfida (satanica) che ha lo scopo di far dilagare il caos nel mondo. Quel caos che, per chi lo alimenta, è fonte di grandi opportunità.