La guerra in Libia, considerazioni condivisibili e non
Tempo di lettura: 3 minutiIn un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 6 marzo, Paolo Mieli ha ricostruito la complessa e criminale vicenda libica, dalla guerra contro Gheddafi alle stragi perpetrate dai miliziani appoggiati dall’Occidente dopo la “liberazione” dal tiranno, fino all’intricata vicenda attuale che vede la Libia prossimo obiettivo di una (in)evitabile guerra Nato in funzione stabilizzante.
Così commenta il cronista del Corriere: «Prima di imbarcarci in questa impresa, è bene fermarci a riflettere ancora su due o tre punti. Primo: dalla caduta del muro di Berlino (1989) sono trascorsi ventisette anni nel corso dei quali l’Occidente ha combattuto numerose guerre che, eccezion fatta per quella balcanica, non hanno dato i risultati sperati. Nella maggior parte dei casi, anzi, hanno provocato autentiche catastrofi. E la Libia […] è il peggior rovaio tra quelli in cui potremmo andarci ad infilare. Si può fare qualcosa di diverso perché la storia non si ripeta?
Secondo: andiamo nella nostra ex colonia in rottura con Haftar nemico esplicito degli islamisti (cioè di coloro contro i quali dovremmo combattere) e protetto dall’Egitto; il che non farà che peggiorare i nostri rapporti con il Cairo già resi molto difficili dopo l’uccisione di Giulio Regeni. Un obiettivo intralcio alla nostra politica delle alleanze»
. Il terzo punto riguarda gli obiettivi finali della guerra, ché di questo si tratta anche se si usano altre parole, che sembra essere la spartizione della Libia, che, a detta del cronista, dovrebbe almeno essere materia di trattative con le autorità locali.
Nota a margine. Interessanti i quesiti posti, ai quali non sembra esserci risposta nella propaganda bellicista che sta propugnando tale iniziativa militare. Anche se l’idea di una frammentazione della Libia non sembra in linea con una stabilizzazione dell’area, ché diverse entità politiche nate dalla spartizione difficilmente riuscirebbero a coesistere e sarebbero causa di conflitti futuri.
In altro articolo dello stesso giorno, sulla Repubblica stavolta, a firma di Piero Ignazi, si legge: «Se veramente il governo italiano vuol far cambiare verso alla politica estera italiana deve essere protagonista di una azione politica e, inevitabilmente, militare. Evidentemente con modalità diverse rispetto agli alleati, purché condordate. Altrimenti si rimane nelle retrovie, come accadde nel 2011. E si retrocede nella considerazione internazionale. Un alto grado di ranking nelle nazioni non si conquista senza giocare un ruolo attivo negli scenari di crisi. Con tutti i rischi connessi
».
Ignazi ha il dono della franchezza: questa guerra s’ha da fare per acquisire ranking internazionale. Le conseguenze, i rischi di attentati in Italia e di alimentare la destabilizzazione e il terrorismo internazionale (vedi articolo di Robert Kennedy citato in una Postilla), sarebbero un rischio collaterale a quanto pare poco rilevante. Ma, al di là di altre e più importanti considerazioni, davvero mettersi proni alla spinta bellicista favorirebbe il nostro Paese?
Val la pena richiamare l’irrituale chiamata alle armi dell’ambasciatore americano in Italia, che in un’intervista al Corriere della Sera ha chiesto 5.000 uomini all’Italia, come facevano nel medioevo gli imperatori ai loro vassalli. Una richiesta che evidenzia come la crisi libica è anche qualcosa che tocca nel profondo i fondamenti della repubblica italiana. All’Italia viene chiesto di agire come una colonia dell’Impero. Di rinunciare ai propri interessi nazionali per gli altrui interessi e disegni geopolitici. Alla propria sovranità che, seppur residuale, ancora esiste.
È possibile che da servi si possano salire alcuni gradini del ranking internazionale, ma continueremo a essere servi e a essere trattati da tali. Con buona pace di quanti confidano nelle magnifiche sorti e progressive di una guerra nella quale ben sanno che a morire saranno altri.