Exit strategy di Putin e il conflitto siriano
Tempo di lettura: 3 minutiIl ritiro a sorpresa di Putin dalla Siria, che ha spiazzato l’Occidente, ha tanti motivi e altrettante conseguenze. Anzitutto intende rilanciare le trattative di pace di Ginevra, finora deludenti, con una mossa che, non a parole ma attraverso fatti, evidenzia che la Russia non è intenzionata a una soluzione militare del conflitto (anche perché non esiste).
In secondo luogo pone fine al rischio connesso a una campagna militare dilatata nel tempo. I conflitti prolungati alla lunga si perdono, come sanno bene gli Stati Uniti. Perché una guerra non vinta, nonostante abbia conseguito obiettivi, è una guerra persa.
La chiusura della campagna militare evita così alla Russia il rischio Afghanistan, evocato dai suoi avversari neocon. Il riferimento è al conflitto iniziato nel ’79, quando l’Urss invase il Paese, e finito nell’89, anno simbolico perché è quello del crollo del Muro di Berlino che segnò l’inizio della fine dell’Urss.
Tale guerra, infatti, logorò l’Unione sovietica dal punto di vista militare, economico e politico. E contribuì non poco al suo collasso. Una lezione del passato che gli strateghi russi hanno capito.
Chiudere il conflitto, inoltre, evita a Mosca di sostenere una dispendiosa campagna militare che, in tempi di vacche magre a causa delle sanzioni internazionali e del crollo del prezzo del petrolio (principale risorsa russa), avrebbe comportato rischi progressivi.
Un’exit strategy necessaria, quindi, buttata sul piatto della diplomazia internazionale con acuto senso tattico. E giustificata dal fatto che gli obiettivi prestabiliti all’inizio della spedizione militare «sono stati generalmente (generally) compiuti», come da dichiarazioni di Putin.
Due gli obiettivi in questione: «stabilizzare» il governo di Damasco, dato per spacciato prima dell’intervento russo e ora saldamente in sella, e dare avvio a un «compromesso politico» con le forze di opposizione.
Assad non solo è ancora al suo posto, ma durante questi mesi l’apparato militare siriano, grazie all’apporto della tecnologia e dell’armamento russo, ha subito una rivoluzione che lo ha reso più efficace e moderno.
Non solo, i tecnici e gli strateghi russi hanno trasmesso all’esercito siriano nuove tecniche militari, che lo hanno reso più efficiente e in grado di gestire criticità prima impossibili.
In questo modo il passo indietro dei russi, che pure mantengono in loco l’aviazione e soprattutto la deterrenza dei temibili sistemi anti-aerei S-400, non lascia Assad alla mercé dei suoi nemici, vanificando eventuali velleità di rivincita da parte dei suoi avversari.
La nuova efficienza dell’apparato militare siriano si sta misurando proprio in questi giorni, nei quali Assad sta tentando di liberare la città archeologica di Palmira dall’Isis. Un obiettivo di prestigio che lui e Putin vogliono conseguire come fiore all’occhiello della controffensiva che ha messo le milizie jihadiste alle corde.
Detto questo, la dichiarazione di Putin ha una lettura ulteriore: quel «generally» [generalmente ndr.], infatti, indica che non tutto è andato secondo quanto si erano ripromessi i generali di Mosca. Probabilmente speravano di riprendere Aleppo e Raqqa prima che i colloqui di pace si concretizzassero. Ma anche la duttilità di non tentare di riuscire a ogni costo è sintomo di intelligenza strategica.
Al di là dei risultati non del tutto soddisfacenti sul piano militare, resta che Putin ne ha ottenuti altri in ambiti diversi. La campagna siriana gli ha ridato prestigio internazionale, non solo riproponendo la Russia come potenza globale, ma anche consegnando a Putin, nonostante sia tenacemente taciuto dai cantori dell’Occidente, la patente di unico reale attore di contrasto dell’Isis.
Un contrasto che, ridimensionando il Califfato, ha peraltro momentaneamente allontanato dall’Asia e dai confini russi il rischio terrorismo. Erano le regioni asiatiche, infatti, il territorio di espansione che l’Isis si era ripromesso come prossimo obiettivo dopo la caduta di Damasco (tanti dei suoi dirigenti sono ceceni).
Le bombe russe hanno costretto lo strano Califfato a cambiare strategia, tanto che ora guarda alla Libia e all’Africa.
Mosca, inoltre, si è ritagliata un nuovo ruolo nel complesso quanto cruciale gioco del Medio oriente, dal quale era stata esclusa dopo la guerra del Golfo.
Infine, abbandonando le armi per la diplomazia, può provare a riallacciare il filo del dialogo con alcuni Paesi che il conflitto aveva allontanato.
Anzitutto l’Arabia Saudita, sostenitrice di gran parte delle milizie anti-Assad, partner indispensabile per tentare di porre un freno al crollo del prezzo del petrolio.
Resta incerto il futuro della Siria. Alto è il rischio di una frammentazione del Paese e di un naufragio a medio termine dei colloqui di pace con conseguente ripresa del conflitto.
Un esito che riaprirebbe le porte alla possibilità di un intervento diretto di Turchia e Arabia Saudita in Siria.
Tale ipotesi è stata bloccata dall’intervento russo, ma soprattutto dal freno posto dall’amministrazione Obama. E però il futuro inquilino della Casa Bianca (la Clinton, ad esempio) potrebbe dare luce verde.
Da questo punto di vista, il ritiro di Putin è anche un disimpegno tattico in attesa degli eventi, in particolare dell’esito delle presidenziali Usa. Nel caso la situazione precipitasse, non vuole esporre inutilmente le forze russe.
Il contingente militare che rimane in Siria, concentrato nella base navale di Tartus e quella aerea di Khmeimim, dovrebbe dare la possibilità a Damasco di sostenere un primo colpo e consentire la reazione russa. Almeno questo nei piani degli strateghi di Mosca.
Non resta che sperare che tale scenario non si debba mai verificare. Tutto è sospeso a Ginevra e soprattutto ai colloqui che si stanno realizzando sottotraccia tra i veri protagonisti della guerra siriana (Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Israele, Gran Bretagna, Francia, Russia). E alle decisioni del prossimo presidente americano.