Trump e la Cina
Tempo di lettura: 2 minutiIl programma di Donald Trump prevede di alzare dazi sui prodotti commerciali asiatici, con particolare riferimento a quelli cinesi. Questo per rilanciare l’industria nazionale, che soffre la concorrenza di quella asiatica.
Sul punto scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera del 14 novembre: «Resta da capire come reagirebbe Pechino anche solo a misure protezionistiche molto più timide di queste. Oggi la banca centrale cinese dispone di riserve valutarie da 3.150 miliardi di dollari, di cui due terzi in titoli di debito del governo americano o di agenzie pubbliche statunitensi
».
«La Repubblica popolare resta il più grande creditore degli Stati Uniti e le basterebbe vendere una piccola parte dei suoi titoli del Tesoro Usa perché i prezzi dei bond sovrani americani crollino e i tassi d’interesse a medio e lungo termine s’impennino. Il danno per Wall Street e l’intera economia americana sarebbe profondo e immediato. La strada del protezionismo sembra dunque in salita di fronte al primo partner commerciale degli Stati Uniti»
.
Nota a margine. Il Dragone è preoccupato da un possibile innalzamento dei dazi minacciato da Trump. Meno dalla possibile denuncia del trattato transpacifico, stipulato dagli Stati Uniti con altri Paesi asiatici in funzione di freno, sul piano sia economico che militare, dell’espansionismo cinese.
Anzi, la seconda misura potrebbe comportare benefici per Pechino, che vede allentarsi la cintura di contenimento che Washington stava costruendo attorno alla Cina.
Probabile che abolire il trattato comporti una rinegoziazione bilaterale degli scambi commerciali tra i singoli Paesi asiatici e Washington. Cosa che, stante quel che accenna Fubini, dovrebbe necessariamente avvenire anche con Pechino.
Partita aperta quella asiatica, dal momento che tante e confliggenti sono le spinte che agitano il Pacifico, area cruciale per gli scambi commerciali del mondo.