Al Aqsa: Israele toglie gli apparati di controllo
Tempo di lettura: 4 minutiLa situazione alla Spianata delle moschee, dov’è ubicata la moschea di al Aqsa, uno dei luoghi più sacri dell’islam, sembra essersi normalizzata dopo giorni di fuoco. Israele ha prima rimosso i metal detector per poi porre fine anche alle altre misure di sicurezza disposte per controllare l’ingresso della Spianata, come da richiesta della controparte.
Tali misure erano state disposte dopo l’attentato avvenuto proprio nei pressi del luogo santo il 14 luglio scorso, quando tre arabo-israeliani avevano ucciso due militari di Tsahal di sorveglianza.
I metal detector e le altre restrizioni all’ingresso disposte dalle autorità israeliane avevano dato vita alle proteste dei palestinesi, dilagate poi in tutto il mondo arabo, in particolare in Giordania, Paese cui spetta la custodia della moschea.
Le disposizioni dalle autorità israeliane, infatti, secondo gli arabi non servivano tanto a proteggere il sito, ma rientravano nel disegno di prendere il controllo della Spianata, obiettivo dichiarato di tanto mondo politico e religioso ebraico che considera inaccettabile la tutela islamica di un luogo che è sacro anche all’ebraismo (era l’antica sede del Tempio di Gerusalemme prima della sua distruzione).
Gli islamici, per reazione, avevano disertato il luogo santo per attestarsi a pregare al di fuori della Spianata, occasione anche per elevare insistenti proteste contro la decisione delle autorità di Tel Aviv. Ne erano nati scontri con la polizia che avevano causato cinque morti tra i fedeli arabi.
Un attentato messo a segno da un arabo ai danni di un colono e della sua prole (due figli) aveva gettato ulteriore benzina sul fuoco e innescato nuovi scontri, e ai primi cinque morti ne erano seguiti altri, sempre per parte araba.
L’apice dello scontro si era registrato in Giordania il 23 luglio, dove la sicurezza dell’ambasciata israeliana aveva ucciso due persone. Controversa la dinamica degli avvenimenti: gli israeliani parlano di legittima difesa a seguito di un assalto, la controparte di omicidio o quantomeno di eccesso di difesa.
Ne era nata una controversia ad alto livello tra Tel Aviv e Amman, con quest’ultima intenzionata a interrogare gli uomini della sicurezza, infine rimpatriati. Alla pressione delle masse islamiche si univano le proteste più o meno vibrate di vari Paesi arabi, in particolare l’autorità nazionale palestinese e la Turchia.
Più basso profilo hanno tenuto l’Egitto, i sauditi e i Paesi sunniti più prossimi a Ryad, come riportava Haaretz, a motivo dei nuovi rapporti tra Tel Aviv e il mondo sunnita. Ma è più che probabile che anche le autorità di questi Paesi abbiano suggerito al governo israeliano di non esacerbare la situazione per evitare imbarazzi anche al loro interno.
Alla fine il governo israeliano ha dovuto cedere, anche perché per venerdì, giorno santo dell’islam, si prevedeva un’impennata degli scontri.
Tanto rumore per nulla si potrebbe dire, se non fosse che il sangue versato in questi giorni merita il dovuto rispetto e non si può liquidare con una frase a effetto.
Comunque alla fine il governo ha fatto quel che i militari e la sicurezza avevano suggerito prima che tutto precipitasse, cioè non alterare lo status quo del luogo santo (vedi Piccolenote), da tempo al centro di accese controversie.
Gli arabi parlano di vittoria, mentre il governo di Benjamin Netanyahu, che ha deciso la stretta per assecondare le richieste dei partiti ultra ortodossi e non essere scavalcato a destra, sembra esserne uscito alquanto malconcio.
Ma è presto per stilare bilanci, stante che Netanyahu ha dimostrato più volte di avere risorse inaspettate. E che i colloqui sottotraccia intessuti in piena crisi tra Tel Aviv, l’Egitto e l’Arabia Saudita su un tema tanto cruciale per l’islam indicano che il riposizionamento geostrategico di Israele (che si sostanzia in un rapporto non più conflittuale con il mondo sunnita) sta consolidandosi.
Forse anche per quest’ultimo sviluppo si sono nuovamente dilatate le distanze tra Tel Aviv e Ankara, che con quel mondo sunnita è entrato in conflitto a causa delle diverse interpretazioni della guerra siriana (che li vede sostenere bande armate diverse e confliggenti) e per il braccio di ferro intrapreso dai sauditi con il Qatar, alleato di Ankara, che Ryad intende piegare ai suoi desiderata.
Le relazioni tra Israele e Turchia avevano conosciuto una stagione di grande freddo a seguito dell’assalto dei militari di Tsahal a una flotta turca diretta a portare aiuti a Gaza. Parentesi poi chiusa dall‘accordo del giugno 2016.
La crisi della moschea ha visto il premier turco Recep Erdogan in prima linea contro il governo israeliano, con scambi di accuse reciproche. Se non è l’inizio di una nuova stagione di gelo, di certo qualcosa nei rapporti tra i due Paesi va registrato.
Al di là degli sviluppi, quel che è certo è che si è posto fine a una situazione incendiaria e potenzialmente esplosiva. Cosa della quale non si può che essere grati.
Va infine registrato che ancora una volta i vertici militari e degli apparati di sicurezza israeliani si sono dimostrati più lungimiranti dei politici che devono servire. Una riserva non solo di intelligence, ma anche di intelligenza che ha evitato al Paese altre inutili tragedie.