Bombe Usa al confine siro-iracheno
Tempo di lettura: 4 minutiLa guerra per il controllo della frontiera tra Siria e Iraq registra un’impennata. Lunedì scorso alcuni aerei e l’artiglieria americana stanziata in Giordania hanno bombardato una brigata di miliziani legati a Hachd al-Chaabi, le unità di mobilitazione popolare formate in Iraq per supportare la lotta contro Daesh del governo iracheno e della coalizione internazionale a guida Usa.
Milizie che sono state decisive, peraltro, per la liberazione di Mosul, ma che non sono viste di buon occhio da Washington, contrariata dal loro legame con Teheran.
I morti del bombardamento sono stati quaranta e molti di più sono stati i feriti. Non è stato un errore, ma un’operazione decisa a tavolino.
Non è la prima volta che l’esercito Usa bombarda miliziani sciiti che si muovono in prossimità del confine siro-iracheno, ma questa è stata certamente l’operazione più importante.
Un bombardamento condotto in spregio al diritto internazionale: non solo perché non è stato autorizzato dal governo iracheno, la cui sovranità è stata violata; ma anche perché le unità di mobilitazione popolare non sono in conflitto con Washington, anzi sulla carta sono sue alleate nella lotta contro l’Isis; né sono inserite nel libro nero del terrorismo internazionale.
In più, il fatto che abbiano combattuto l’Isis lo colloca dall’altra parte della barricata di questa guerra asimmetrica contro il terrorismo.
Ma si tratta di una logica e di uno schema che non interessa affatto agli Stati Uniti, che hanno collocato una base militare ad al Tanf, sul confine siro-iracheno, che rappresenta un presidio militare e, insieme, un monito.
Un monito diretto proprio ai miliziani legati a Teheran e all’esercito di Damasco. Volto a indicare che l’America non tollererà che quella linea di confine sia controllata dagli sciiti o da Damasco,
Washington vuole cioè scongiurare la creazione della mezzaluna sciita, che va da Teheran al Libano, come più volte abbiamo scritto sul nostro sito.
Il bombardamento di lunedì indica quanto siano determinati a impedire tale eventualità.
Per parte loro, le milizie sciite legati a Teheran hanno ben presente tale determinazione Usa e però sembrano volerla sfidare. Il diritto internazionale d’altronde è dalla loro parte.
Probabile che incidenti del genere vadano a ripetersi, anche perché gli sciiti non si rassegneranno facilmente al diktat imposto da Washington.
Il bombardamento è avvenuto dopo che il Congresso americano ha comminato sanzioni contro l’Iran (insieme a Russia e Corea del Nord). Sanzioni che inaspriscono il rapporto tra Teheran e Washington.
Sembra che gli Stati Uniti intendano far degradare le relazioni tra i due Paesi, anche se ad oggi non è chiaro fin dove si vogliano spingere.
L’irrigidimento degli Stati Uniti favorisce le manovre dei falchi iraniani che tentano di stringere in un angolo il moderato Rouhani. Una manovra a tenaglia che, se riuscisse, metterebbe il presidente alla mercé dei suoi nemici interni e riaccenderebbe irreversibilmente il confronto con gli Stati Uniti.
Di fatto, come dimostra il bombardamento di lunedì, tale confronto è già nei fatti. Si tratta di un vero e proprio conflitto sottotraccia, che vede scontri sporadici in aree di rilevanza strategica primaria, il Golfo Persico, attraverso il quale transita tanto commercio internazionale, e, appunto, il confine siro-iracheno.
Di fatto, ad oggi, gli americani sembrano limitarsi a contenere la spinta di Teheran, che nella guerra tra sciiti e sunniti che ha incendiato il mondo arabo sta dilatando la propria sfera di influenza.
Ciò perché negli Stati Uniti, pur se ha preso piede la convinzione che l’Iran deve tornare a essere trattato da nemico, non pare si sia ancora delineata una strategia precisa per piegare il Paese.
Le strategie belliche messe a punto negli anni precedenti, infatti, non sembrano più efficaci. Sia perché è cambiato il volto del Medio Oriente, nel quale Teheran non è più una monade reietta, sia perché l’Iran ha mostrato di possedere capacità belliche più sofisticate del previsto.
Lo si è visto in occasione del lancio di missili terra-terra contro obiettivi Isis a Deir Azor, effettuato dall’esercito di Teheran a fine giugno (vedi Piccolenote).
Così, se è difficile immaginare un risanamento delle relazioni tra Washington e Teheran, è altrettanto difficile immaginare che prenda corpo l’opzione bellica su larga scala programmata da qualche dottor Stranamore.
Anche i generali che circondano Trump, benché più che diffidenti nei confronti di Teheran, sembrano alla ricerca di una strategia nuova e più percorribile rispetto alla guerra a tutto campo.
Più che probabile, quindi, che il conflitto sottotraccia tra i due Paesi continui per i prossimi mesi, tra strappi e accuse reciproche. Un conflitto nel quale i due contendenti continueranno a perseguire i propri obiettivi confliggenti.
Così è più che probabile che, nonostante la contrarietà americana, l’Iran continuerà a spingere per prendere il controllo, per interposte milizie sciite, del confine siro-iracheno. Un obiettivo che perseguirà, come ha fatto finora, con prudenza e cautela.
Ci saranno degli stop, ma la spinta in tal senso è forte, forse inarrestabile, a meno di non immaginare appunto una guerra su vasta scala. In tal senso, Teheran punta a mettere Washington, e il mondo, davanti al fatto compiuto.
Nel perseguire tale disegno Teheran ha dalla sua una intrinseca legittimità: tale confine per anni è stato preda dell’Isis. E sono state proprio le milizie sciite, supportate dall’esercito siriano e dall’aviazione russa, a fare il lavoro sporco per ottenerne la liberazione, nell’inattività commendevole dell’apparato militare americano e della fantomatica coalizione internazionale anti-terrorismo. Una legittimità che, a torto o a ragione, oggi rivendica di fronte al mondo.