Baremboim e lo Stato della Palestina
Tempo di lettura: 3 minutiUn accorato appello alla pace per la Terrasanta quello di Daniel Baremboim pubblicato oggi sul Corriere della Sera, che chiede alla comunità internazionale di riconoscere finalmente il diritto di una patria per i palestinesi accanto a quella israeliana.
«I Palestinesi», scrive Baremboim, «hanno da tempo rinunciato al loro diritto all’intero territorio della Palestina [rivendicazione originale ndr.], dichiarandosi a favore di una divisione del Paese, mentre Israele continua la pratica illegale degli insediamenti nei territori, mostrando scarsa disponibilità a imitare i Palestinesi».
«Alcuni aspetti del conflitto [tra i due popoli ndr.] sono in certa misura simmetrici. Altri invece sono asimmetrici. Israele è già uno Stato, uno Stato molto forte e deve quindi assumersi una parte maggiore di responsabilità», prosegue il grande direttore d’orchestra.
E continua: «Di fronte alla decisione unilaterale degli Usa [di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele ndr.], faccio un appello al resto del mondo: riconoscete lo Stato della Palestina come avete riconosciuto Israele. Non ci si può attendere che due popoli […] che non si riconoscono reciprocamente trovino un compromesso».
«Una soluzione a due Stati con pari diritti», si legge in altra parte del suo scritto, «sarebbe la sola strada verso la giustizia per i Palestinesi e la sicurezza per Israele».
Quindi l’accorato appello «alle grandi nazioni che non l’hanno ancora fatto affinché riconoscano subito la Palestina». Tale riconoscimento, specifica Baremboim, «non sarebbe un passo contro Israele, ma un passo in direzione di una soluzione sostenibile per entrambe le parti».
Certo, l’appello del grande direttore d’orchestra non è un’iniziativa di facile prospettiva, stante la riottosità della comunità internazionale a intraprendere passi del genere, ma anche se vox clamantis in deserto, rincuora.
Tali appelli alla ragionevolezza, infatti, aiutano nei momenti difficili. E questo è uno dei tanti momenti difficili che da anni tormentano la Terra Santa, ché l’annuncio di Trump ha scatenato un incendio, provocando nuove ondate di protesta dei palestinesi.
Un incendio che ha trovato alimento nel lancio di razzi contro Israele da parte della Jihad islamica (vedi Piccolenote), per fortuna senza conseguenze per la popolazione civile, e nell’eccessivo uso della forza da parte israeliana, che, dispiegata per attutire la portata delle violenze, ha avuto invece, come accaduto in passato, l’esito di accrescerle.
In particolare hanno fatto clamore nel mondo arabo, e non solo, due gravi quanto ingiustificati episodi: l’uccisione di Ibrahim Abuthurayeh, mutilato delle gambe dieci anni fa a seguito un bombardamento al campo profughi di Al-Bureij, ucciso da un colpo di fucile mentre protestava, sulla sua sedia a rotelle, al confine di Gaza (vedi pagina facebook Jews for palestinian right of Return).
E l’arresto di una ragazzina sedicenne, Ahed Tamini, prelevata nel villaggio di Nabi Saleh dai soldati israeliani in un’irruzione presso la sua casa (vedi ancora Jews for palestinian right of Return).
Mettere un freno a certe follie, purtroppo non le prime, aiuterebbe. Non solo i palestinesi, ma anche l’immagine internazionale, e non solo, di Israele.
Tra i tanti accenti toccati da Baremboin, colpisce peraltro il cenno sui benefici che la nascita di uno Stato palestinese porterebbe alla «sicurezza» di Israele.
È una convinzione che alberga anche in diversi ambiti dell’intelligence e degli apparati militari israeliani. Ma si tratta di un tema che molti ambiti politici di Tel Aviv eludono in ogni modo, nel timore di perdere il vantaggio che reca loro la “paura del nemico”.