29 Dicembre 2017

Siria, la nuova offensiva

Siria, la nuova offensiva
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soldati israeliani sul Golan

La guerra siriana si infiamma dopo mesi di relativo stallo, nei quali il governo di Damasco ha consolidato il controllo delle aree riconquistate agli jihadisti.

Sbaragliata ormai l’Isis, Damasco è decisa a riprendersi le ultime aree strategiche ancora in mano alle milizie jihadiste, in particolare la zona di Idlib e le aree del Golan presso il confine israeliano.

Una decisione che innervosisce sia la Turchia che Israele, che preferiscono avere ai propri confini tali forze.

La Turchia infatti non ha mai nascosto il suo interesse per Idlib, zona nella quale esercita certa influenza grazie anche ai solidi legami con le milizie locali, da tempo egemonizzate dalla potente al Nusra (al Qaeda in Siria).

I siriani, hezbollah e le milizie sciite filo-iraniane hanno iniziato l’attacco con il pieno appoggio dei russi.

Non è un caso che Mosca abbia comunicato che, sgominata l’Isis in Siria, la priorità per il 2018 è eradicare al Nusra, che proprio a Idlib ha il suo cuore pulsante.

Evidentemente la ritirata delle forze russe dalla Siria, annunciata agli inizi di dicembre da Putin, era solo parziale e per finalità altre (la campagna elettorale, dove il presidente russo vuole rivendicare il successo in terra siriana; la necessità di limitare il dispendio di risorse necessarie a sostenere il conflitto etc).

L’intensificarsi delle operazioni militari su Idlib ha creato un’impennata di tensione. Le milizie asserragliate nell’area hanno fatto sfoggio di un armamento e di un’operatività nuova.

Hanno buttato giù un aereo siriano e sono riusciti a lanciare i loro missili contro la base aerea russa di Hmeimim. Cosa che ha suscitato le ire dei russi, convinti che i loro nemici stiano ricevendo aiuti da Paesi avversi a Damasco.

Tanto che la Difesa di Mosca ha fatto trapelare notizie riguardanti inseguimenti e incruente battaglie aeree tra jet russi e americani troppo vicini alle aree controllate da Damasco; oltre che su jet Usa seguiti con attenzione dagli S-400, le sofisticate batterie anti-aeree che i russi hanno stanziato nel Paese.

Ma, come detto, a essere particolarmente nervoso per questo attacco è Recep Erdogan. Il presidente turco sembrava rassegnato ad accettare che Assad restasse al suo posto, invece in questi giorni lo ha definito “terrorista”, aggiungendo che non ci sarà pace in Siria finché resterà al potere.

Una polemica alla quale Damasco ha risposto accusandolo di essere stato il più attivo nel versare sangue siriano. Uno scontro verbale alzo zero, che getta un’ombra sui futuri negoziati sulla guerra siriana che si terranno in Russia, a Sochi per l’esattezza.

Proprio tale appuntamento sembra dare alimento alla furia polemica di Erdogan: non vuole scherzi su Idlib né sui curdi siriani, che lui vorrebbe fossero esclusi da tutto mentre Damasco e Mosca premono per la loro inclusione nei negoziati.

Il braccio di ferro tra Assad ed Erdogan è destinato a perdurare. Erdogan ha tutto l’interesse ad alzare il tiro: qualcosa dovrà pur essergli concessa.

Come è destinata ad alzarsi la tensione tra Damasco e Tel Aviv. Il sito israeliano Debka file riferisce dei lavori per il rifacimento della strada che va da Deir Ezzor a Palmyra, punto nodale dell’asse che collegherà in maniera stabile Teheran al Mediterraneo via Siria.

Uno snodo cruciale per collegare l’Iran al Mediterraneo, sviluppo geopolitico che Tel Aviv vede con crescente preoccupazione.

Un’apprensione accresciuta dalla progressiva erosione delle aree controllate dalle milizie jihadiste ai suoi confini: due giorni fa Damasco ha ripreso il controllo di Beit Jinn, snodo cruciale per riprendere il controllo delle aree del Golan già appartenenti al territorio nazionale siriano.

Cosa ancor più preoccupante per Tel Aviv è che tale operazione sia stata condotta da hezbollah e dalle milizie sciite.

Tel Aviv da tempo manovra, pubblicamente e nel segreto, per ridimensionare hezbollah e iraniani. Ora se li ritrova a soli 11 chilometri dal confine.

Uno sviluppo imprevisto per il governo israeliano, sicuro che il crollo di Damasco gli avrebbe risolto tanti dei suoi – più o meno veri, più o meno paventati – problemi di sicurezza.

Da tempo Netanyahu chiede alla Russia, come anche agli Stati Uniti, di porre fine alla presenza iraniana in Siria. Putin ha spiegato al suo interlocutore l’impossibilità di far valere la propria volontà presso Teheran su una questione che essa considera cruciale.

La presenza di truppe iraniane in Siria, infatti, servirebbe a garantire la sicurezza di Assad, per la quale l’Iran ha speso sangue e risorse, in particolare ora che il suo esercito è stato quasi polverizzato nella lunga guerra.

Ma invece di un diniego totale ai desiderata di Tel Aviv, il presidente russo ha offerto un possibile compromesso: i russi si sarebbero impegnati a vigilare su una fascia di confine, tenendo lontani da Israele i suoi avversari.

Ipotesi respinta al mittente dal governo israeliano. In mancanza di accordi, l’Iran ed hezbollah hanno agito di conseguenza, mettendo Israele di fronte al fatto compiuto. La Russia ha evitato di interferire nella contesa, tanto è vero che Beit Jinn è stata presa senza il suo supporto.

Ora la situazione è in via di sviluppo. Tel Aviv finora non è intervenuta nel conflitto, consapevole dei rischi cui si sarebbe esposta, ma potrebbe cambiare idea.

Da capire se iraniani ed hezbollah vogliano spingersi fino all’area di Quneitra, da tempo zona cuscinetto tra Israele e Siria, sviluppo che alzerebbe la tensione ai massimi livelli.

La battaglia di Idlib e la guerra d’attrito al confine israeliano sono appena all’inizio. Bizzarria del destino, tali conflitti vedono la Siria avversa a Turchia e Israele.

Proprio ora che Erdogan sta cavalcando con foga la battaglia per il destino di Gerusalemme, mettendosi in urto frontale con il governo di Tel Aviv, che ha accolto con entusiasmo la decisione di Donald Trump di dichiarare tale città capitale di Israele e di indicarla come nuova sede dell’ambasciata Usa.

Conflitti complessi e intrecciati quelli che attraversano il Medio Oriente. Trovare il bandolo della matassa resta esercizio difficile. Urge un compromesso. Ma il primo appuntamento buono per riprendere il filo dei negoziati è a Sochi, il 29 gennaio prossimo.

Una data un po’ lontana: data la situazione magmatica quanto rischiosa, non solo i giorni, anche le ore sono cruciali. Si spera che prima di allora non accada l’irreparabile.

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