Aldo Moro (3): l'11 settembre
Tempo di lettura: 3 minutiL’11 settembre del 1973 PInochet prende il potere in Cile. Apparentemente non è che uno dei tanti rivolgimenti sudamericani. Ma quanti capivano le cose del mondo sapevano che non era così. Quel colpo di Stato segnava il ritorno del mostro che si pensava seppellito dalla storia.
Quell’11 settembre (potenza evocativa della numerologia) aveva infatti un valore epifanico: Hitler era tornato.
Non solo un’evocazione suggestiva, anche il livello operativo era del tutto evidente a quanti avevano contrastato quel mostro.
Le reti naziste, infatti, erano sopravvissute al collasso della Germania (qui un accenno). Alla rete creata nell’Europa dell’Est era stato affidato il compito di contrastare l’Unione sovietica.
Ne era a capo Reinhard Gehlen che l’aveva creata e diretta sotto il nazismo e continuò a guidarla in qualità di capo dei servizi di informazione della Germania Ovest, in stretta collaborazione con la Cia.
Alla rete sudamericana, formata grazie ai tanti gerarchi nazisti che vi avevano trovato riparo, fu dato il compito di contrastare l’influenza dei movimenti comunisti locali. Per creare e sostenere le varie dittature sudamericane fu usata proprio tale rete.
Il colpo di Stato cileno fu decisivo per Enrico Berlinguer: quell’evoluzione, meglio, involuzione, lo convinse che certi ambiti cultural-finanziari erano disposti a ricorrere all’antico nemico (al Terrore massivo) pur di evitare che il comunismo prendesse il potere in un Paese che Yalta aveva consegnato all’Occidente.
Al colpo di Stato dell’11 settembre il segretario del partito comunista dedicò meditati articoli su Rinascita, nei quali espresse la determinazione che fosse necessario al comunismo italiano trovare un compromesso con i suoi antagonisti storici, la Dc.
Una prospettiva che trovò orecchie più che attente: anche gli esponenti della Democrazia cristiana avevano colto, e forse già da prima (vedi passi del cosiddetto memoriale Moro sulla strage di Piazza Fontana), la terribile involuzione in atto.
Loro che il nazifascismo lo avevano contrastato perigliosamente. Basti pensare che Moro, nel cosiddetto memoriale scritto durante la prigionia brigatista, accennerà al senso del “dovere dell’antifascista” Andreotti.
Non solo la Dc. Anche Giovanni Battista Montini, che fu il primo motore immobile e punto di riferimento del compromesso storico, era ben cosciente della terribile minaccia, dal momento che del nazifascismo era stato fermo quanto intelligente antagonista.
Da qui la faticosa nascita del compromesso storico, che, come abbiamo accennato in altro articolo, non aveva un orizzonte italiano, come viene troppo spesso limitato, ma globale.
E non fu solo un’alleanza difensiva contro il nazifascismo di ritorno, ma un tentativo di portare il mondo fuori dalle secche di Yalta che quel mostro aveva prodotto, stante che la fissità dei due Blocchi aveva creato connivenze profonde tra Urss e Stati Uniti (Augusto Del Noce scriverà che quell’accordo aveva prodotto «un mostro a due teste»).
Se, infatti, oscuri ambiti occidentali non avevano scrupoli, pur di non perdere il potere acquisito, a scatenare il Terrore, tale prospettiva era condivisa da importanti ambiti dell’Unione sovietica.
Del tutto sodale era, infatti, l’apparato militar-industriale di Mosca, al quale Yalta aveva consegnato un potere assoluto nell’Impero d’Oriente. Un potere che la caduta dei Blocchi gli avrebbe revocato.
Anche perché lo sviluppo evolutivo del comunismo italiano avrebbe innescato, almeno questa l’intenzione, una spinta riformista nella stessa Unione sovietica, allentando la tensione internazionale, fonte primaria della presa dell’apparato militare industriale sull’Impero d’Oriente.
Era cioè un tentativo di dar corpo a quella prospettiva riformista (inevitabile per evitare il collasso del sistema) successivamente incarnata dalla presidenza di Michail Gorbacev, ormai troppo tardi per evitare il crollo.
Il compromesso storico, dunque, rappresentava una minaccia esistenziale per l’ordine globale nato dagli accordi di Yalta.
Ne era ben cosciente anche Mino Pecorelli, che il 2 maggio del 1978, sulla sua rivista Op, scrisse un articolo dal titolo significativo quanto esplicito: “Yalta in via Mario Fani” (cliccare qui).
Il tentativo fallì. E chi ha vinto allora ha scritto la storia. Com’è evidente dalla lettura di tanti articoli e libri, più o meno in buona fede, che stanno uscendo in questi giorni in cui ricorrono i quarant’anni dell’omicidio Moro.