Manifestazioni Gaza: Israele si interroga sui cecchini
Tempo di lettura: 2 minutiSul New York Times, Roger Cohen ha espresso la sua contrarietà ai cecchini usati da Israele per reprimere le manifestazioni palestinesi sul confine di Gaza. Un pugno duro che finora ha provocato un centinaio di vittime e più di tremila feriti tra le fila dei dimostranti.
“Quando i cecchini sparano per uccidere i civili che si avvicinano a un muro, nella mente di chiunque abbia vissuto a Berlino, suona un campanello d’allarme”. E Cohen ha vissuto a Berlino.
A tema dell’articolo del giornalista del NYT non c’è solo l’aspetto umanitario della vicenda, che pure è centrale. Ma anche la denuncia di una politica del tutto controproducente da parte della leadership israeliana.
“Qualche settimana fa”, scrive infatti Cohen, “sei ex direttori del Mossad, il servizio di intelligence israeliano, hanno lanciato l’allarme. Se i massimi responsabili della sicurezza di Israele definiscono autolesionista l’attuale condotta del Paese, vale la pena di ascoltarli. Così si è espresso Tamir Pardo, capo del Mossad dal 2011 al 2015, intervistato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth: ‘Se lo Stato di Israele non decide cosa vuole, finirà per essere un solo Stato tra il mare e il Giordano. È la fine della visione sionista’”.
“Al che Danny Yatom, direttore del Mossad dal 1996 al ’98, replica: ‘ È un Paese che degenererà o in uno Stato di apartheid o in uno Stato non ebraico. Giudico pericoloso per la nostra esistenza continuare a governare i territori. Non è il genere di Stato per cui ho combattuto. C’è chi dirà abbiamo fatto tutto noi e manca una controparte, ma non è vero. La controparte esiste. I palestinesi e chi li rappresenta sono i partner con cui dobbiamo confrontarci'”.
“È per questo convincimento”, prosegue Cohen, “che il primo ministro Yitzhack Rabin è morto assassinato da un esponente israeliano del fanatismo messianico, contrario a qualsiasi compromesso territoriale, che a partire dal 1967 ha conquistato influenza”.
La data indicata nell’ultimo accenno del cronista è quella della “guerra dei sei giorni“, quando il piccolo ma agguerrito esercito di Tel Aviv sconfisse gli eserciti congiunti di Siria, Egitto e Giordania. Una vittoria che segnò l’inizio del sogno della Grande Israele, alimentato da una deriva messianica della religione ebraica.
Un sogno che per molti israeliani, come testimonia l’articolo del NYT, si è trasformato in un incubo dal quale sembra impossibile uscire e che è alla base di un conflitto interno nel variegato ambito ebraico. E un conflitto lacerante, dal momento che per entrambi i fronti il nodo della contesa ha a che vedere con la sopravvivenza stessa di Israele.
Tale scontro si intreccia con quello israelo-palestinese, che negli ultimi tempi si è riacceso. Non solo lungo il confine. Ieri un ingegnere appartenente all’organizzazione palestinese Hamas è stato ucciso in Malaysia. Un assassinio attribuito al Mossad, che Hamas ha detto di voler vendicare.
Pronta la risposta israeliana: il ministro dell’intelligence Yisrael Katz ha minacciato la dirigenza del movimento palestinese che Israele potrebbe rispondere a eventuali attacchi all’estero rispolverando la stagione delle uccisioni mirate, che non lascerebbero scampo a lui e ad altri capi di Hamas. Rischio escalation.
L’articolo di Cohen è stato ripreso da La Repubblica del 22 aprile.