La conquista di Yarmouk e il niet di Putin
Tempo di lettura: 3 minutiL’esercito siriano riprende Yarmouk, che dal 2011 era sotto il controllo dell’Isis. Mette così in sicurezza definitivamente Damasco, sulla quale incombeva la minaccia dei missili sparati dall’area.
I “ribelli” di Yarmouk
Una notizia che dovrebbe essere accolta con sollievo in Occidente, stante la ferocia dell’Isis. Ma è passata del tutto inosservata, derubricata a una ulteriore conquista di Assad.
Tale la conseguenza della stralunata narrativa egemone, per cui Assad è il cattivo a prescindere, che fa strame della realtà dei fatti.
Per avere un’idea di tale straniamento, basta vedere il sottotitolo dell’articolo che la Stampa dedica a questa vicenda: “Finita la battaglia nel campo di Yarmouk, ultima enclave in mano ai ribelli”… “ribelli”, appunto.
Nulla importa che in realtà si tratta dell’Isis, come peraltro riporta anche l’articolo in questione. Tant’è.
Ora l’Isis rimane presente in maniera massiccia solo nella zona controllata dalle forze “ribelli”, i miliziani sostenuti dall’Occidente, e dagli Stati Uniti, nella zona Nord orientale della Siria.
L’Isis, l’Iran e la presenza Usa in Siria
Stranamente, l’esercito più potente del mondo non riesce ad aver la meglio sulle milizie del terrore sparse in questo fazzoletto di terra.
La battaglia tra le forze americane (e alleate) contro l’Isis, infatti, è condotta in totale surplace.
Non si hanno notizie di battaglie eclatanti, di vittorie o altro. Solo il generico “la guerra al terrorismo prosegue”, come da citazione della Repubblica.
Si deve considerare che si tratta dell’area di confine tra Iraq e Siria, zona più che strategica per quanto riguarda la realizzazione dell’asse sciita (che va da Teheran al Mediterraneo, via Iraq).
Il fatto che gli Stati Uniti dichiarino esplicitamente che l’Iran è il loro nemico numero uno e che non permetteranno mai la realizzazione dell’asse sciita fa immaginare scenari inquietanti, cioè che il contenimento dell’Iran sia più importante della guerra all’Isis.
Non solo: la presenza del Terrore oggettivamente giustifica la permanenza delle forze Usa in un’area tanto strategica e così ricca di petrolio. Che ovviamente non è commercializzato da Damasco, ma da altri.
Assad da Putin
Ma al di là, resta che ora il governo di Damasco controlla il 65% del territorio siriano e “per la prima volta da quando è scoppiata la guerra nel 2011, controlla le strade tra le tre principali città della Siria”, come si legge in un articolo sconfortato dell’Osservatorio siriano per i diritti umani (per il quale, dunque, era preferibile il controllo viario dell’Isis…).
La scorsa settimana Assad ha incontrato Putin a Sochi. Al di là delle dichiarazioni riguardanti il futuro assetto della Siria, ad oggi più che incerto, con questo incontro il presidente russo ha inteso ribadire la sua alleanza con il presidente siriano.
E indicare che il dispiegamento militare russo in Siria, incrementato negli ultimi tempi, non è una mera mossa propagandistica.
Peraltro il conflitto siriano vede una nuova pagina: la guerra d’attrito impegnata da Israele contro la presenza iraniana in Siria, che rischia di tracimare in scontro aperto con Damasco.
Il ministro dell’Energia, Yuval Steinitz, ha addirittura minacciato che Israele è pronta a “uccidere Assad“, se non caccerà gli iraniani. Minaccia seria.
Putin è mediatore naturale tra le parti. E sta svolgendo con successo una funzione di attutimento del conflitto, anche perché nessuno, ad oggi, vuole un’escalation.
Ma il suo incontro con Assad ha un valore più precipuo. Ha voluto cioè esprimere in maniera inequivocabile il suo “niet” ai propositi omicidiari del governo israeliano.