Trump e la dipendenza Usa dall'Afghanistan
Tempo di lettura: 3 minutiLa Tunisia è “l’unico Paese toccato dalla Primavera araba che è riuscito a realizzare una transizione relativamente pacifica dalla dittatura a una democrazia costituzionale […] ed è il Paese con cui meno abbiamo avuto a che fare e dove non abbiamo mai inviato soldati”. Questa l’interessante conclusione che Thomas L. Friedman trae in un articolo del New York Times nel quale si interpella sulla decisione di Trump di ritirare le truppe da Afghanistan e Siria.
L’Afghanistan e le guerre neocon
Invero la sua considerazione non si limita ai Paesi in cui si è registrata la cosiddetta primavera araba, dal momento che analizza a fondo il caso Afghanistan, che non ha nulla a che vedere con tale stagione.
Si tratta in realtà di una considerazione di più ampia portata, che, con occhi più realistici, analizza la velleitaria – e violenta – idea di portare la democrazia in Paesi retti da governi autoritari o asseriti tali. Friedman ne registra lo scacco ideologico.
Il fatto che ad affermare il fallimento delle giustificazioni delle guerre neocon ne sia stato al tempo un sostenitore, come spiega il cronista, rende le sue considerazioni ancora più interessanti.
Anche se, a spiegare, almeno in parte, la singolarità del caso Tunisia è anche il cenno seguente: “La Tunisia è stata anche benedetta dal fatto di avere poco petrolio”.
Certo, Friedman spiega tale accenno asserendo che, grazie a tale assenza, Tunisi è stata costretta a investire maggiormente nella “formazione della sua gente”.
Ma un po’ di ipocrisia gli si può pur concedere: non può certo scrivere, sulle colonne del NYT, i veri motivi delle guerre per esportare la democrazia, tra cui c’è appunto la predazione dell’oro nero (anche in Siria, ad esempio, la zona controllata dagli Usa è quella dove si trovano le risorse energetiche).
Interessante anche il punto nel quale rileva che gli Usa investono “45 miliardi di dollari all’anno in Afghanistan”, con risultati nulli (considerazione che peraltro usa anche Trump per motivare il ritiro).
Le ricchezze afghane
Resta oscuro il vero motivo per il quale gli Stati Uniti abbiano investito tanto in questo Paese. Se è vero, come è vero, che Washington non è una Ong caritatevole e si muove per interesse, nazionale o privato che sia, ci deve pur essere un motivo per tale sperpero.
L’Afghanistan non ha petrolio, ma insiste su Paesi che ne sono ricchi, come Russia e Cina, ma soprattutto Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Turkmenistan, Paesi ex sovietici che gli Usa hanno provato a sganciare dall’orbita russa.
E certo, può essere importante sotto questo profilo e per la commercializzazione dell’oro nero, dato che l’Afghanistan può diventarne crocevia.
Ma al di là del solito petrolio, i cui utili restano meno certi che altrove, l’Afghanistan produce in quantità industriale altro: oppio, del quale è il maggior produttore al mondo, ed estremisti islamici.
Ricchezze naturali di tipo diverso, ma vitali per i conflitti moderni. Per fare un esempio diretto, per la guerra afghana, che contribuì alla caduta dell’Unione sovietica, vennero usati islamisti locali, i famosi mujhiaidin (ovvero al Qaeda).
Per pagare la guerra, tali milizie fecero dell’Afghanistan un immensa piantagione di oppio, commercializzato per contribuire a pagare militanti e armi.
Pare che una banca britannica con sede operativa in Pakistan, la Bcci, fosse la centrale del riciclaggio di tale denaro (v. anche Loretta Napoleoni, Terrorismo Spa).
L’Afghanistan ha prodotto legioni di jihadisti, protagonisti di primavere arabe e guerre connesse.
Al di là di tali “ricchezze” precipue, l’Afghanistan ha una posizione più che strategica, dato che confina con tutte le potenze asiatiche ed è la chiave di quello che Kipling chiama il Grande Gioco.
Trump vuol rompere la dipendenza Usa dall’Afghanistan. Perché al suo America First serve altro. Non sarà facile uscirne. Le guerre si sa quando iniziano, non quando finiscono.
Nella foto in alto: soldato Usa in campo coltivato a oppio