Il fallimento del summit Trump-Kim è un successo di Bolton
Tempo di lettura: 3 minutiIl summit tra Trump e Kim è stato un “successo” secondo John Bolton. Il presidente americano, mandando in fumo l’accordo con la Corea del Nord, avrebbe tutelato gli “interessi degli Stati Uniti”. Questa l’incredibile spiegazione del Consigliere per la sicurezza nazionale Usa al flop di Hanoi.
Può sembrare banale ipocrisia politica, che sbandiera per successi delle palesi sconfitte. Non è così.
La rivendicazione di Bolton
Dal punto di vista di Bolton (e dei neoconservatori) il summit è stato un successo, dal momento che egli è fautore di un approccio aggressivo alla minaccia posta da Pyongyang, da risolversi a suon di bombe.
Strada che un accordo Kim – Trump avrebbe chiuso e che torna alla ribalta. Indiscutibile vittoria dei neocon, dunque, che, attraverso Bolton, l’hanno rivendicata.
Una rivendicazione non spontanea, dato che presumibilmente nasce da una sollecitazione di Trump, ma piena e sincera.
In effetti, è più che probabile che le dichiarazioni di Bolton siano frutto di una richiesta di Trump, il quale, avendo ceduto alle pressioni del suo Consigliere, gli ha però chiesto di difenderlo, onde limitare i danni alla sua immagine derivanti dal flop.
Varie le interpretazioni di quanto avvenuto nel chiuso dell’incontro tra i due presidenti.
È evidente che un’eventuale intesa prevedesse un ridimensionamento del nucleare in cambio di un alleviamento delle sanzioni contro Pyongyang.
Ridimensionamento e non smantellamento totale del nucleare, come accennato peraltro da Trump prima del vertice, il quale aveva affermato di “non aver fretta” di giungere a una denuclearizzazione completa della Corea del Nord.
Trump, dopo il flop, ha detto tutt’altro, ovvero che Kim avrebbe chiesto la revoca totale delle sanzioni in cambio di una denuclearizzazione parziale. Una richiesta impossibile perché del tutto inaccettabile.
Propaganda, null’altro, quella del presidente Usa, peraltro legittima in un momento di difficoltà. Più credibile la versione delle autorità nordcoreane che hanno ribadito di aver chiesto solo un ridimensionamento delle sanzioni.
Resta che l’accordo non c’è stato. Decisivo in tal senso, come accennato in altra nota, l’esplodere del conflitto tra India e Pakistan, che non permetteva di siglare un’intesa che consentisse a Pyongyang di conservare l’atomica.
Trump sarebbe stato massacrato perché, non eliminando la minaccia atomica, l’accordo metteva a repentaglio la “sicurezza degli Stati Uniti”, come dimostrava la pericolosa escalation tra le due potenze nucleari asiatiche.
Il summit e la guerra tra India e Pakistan
In fondo Bolton ha detto la verità. Resta la (in)tempestività del conflitto indo-pakistano scoppiato proprio in quei giorni e che ora sembra si stia spegnendo.
Robert Fisk, sull’Indipendent, afferma che tale conflitto può spiegarsi con le affinità elettive che negli ultimi anni si sono prodotte tra il governo indiano e quello di Israele e, potremmo aggiungere, tra il presidente Nerendra Modi e Benjamin Netanyahu.
Il partito di Modi, Bjp (partito popolare indiano), ha assunto una forte caratterizzazione anti-islamica, ponendo la minaccia del terrore islamista al centro della sua agenda, assimilazione dell’analoga agenda del leader israeliano.
Da Israele avrebbe anche mutuato la tattica dell’attacco preventivo contro il terrore (il Jem nel caso specifico, che aveva rivendicato un feroce attentato sul suolo indiano).
Non solo una convergenza ideologica: Fisk annota come la stampa di New Delhi abbia sottolineato con orgoglio l’uso, nella contesa col Pakistan, di sofisticate armi israeliane da parte dell’esercito indiano. Cosa peraltro rilevata anche da agenzie israeliane (Debka).
D’altronde l’India, ricorda Fisk, è il più importante cliente di Tel Aviv in fatto di armamenti. Insomma, la crisi indo-pakistana dovrebbe molto alla nuova fisionomia del Bjb e ai suoi legami con certa destra israeliana.
Una destra israeliana che non nasconde i suoi rapporti con Bolton e i circoli che egli rappresenta, come questi vantano gli indissolubili legami con quelli.
Certo, affermare che la tenaglia destra israeliana-neocon abbia affondato il vertice tra Trump e Kim sarebbe azzardato. Nondimeno è legittimo chiedersi se certe tacite convergenze possono aver giocato un qualche ruolo.