Iraq e Siria: bloccata la guerra di Netanyahu?
Tempo di lettura: 4 minutiSecondo un’importante fonte contattata dall’Independent, Netanyahu voleva iniziare una guerra contro le milizie iraniane in Iraq e Siria, ma è stato bloccato dal Procuratore generale di Israele, il quale gli ha ricordato che egli guida un governo di transizione e che quindi non ha l’autorità per iniziare una campagna militare di così larga portata (a rilanciare la notizia è al Manar, che la riprende dall’edizione in lingua araba dell’Independent).
Lo scontro all’interno del potere israeliano si sarebbe consumato all’indomani del bombardamento americano del 30 dicembre contro le milizie di Hezbollah stanziate in Iraq e Siria (denominate Hashd al-Chaab).
Un raid che ha provocato reazioni sdegnate da parte delle autorità di ambedue i Paesi e innescato rischiose manifestazioni contro l’ambasciata americana in Iraq, la cui integrità è stata relativamente violata.
Il premier israeliano, dunque, sarebbe stato intenzionato a usare l’abbrivio dei bombardamenti Usa per dar vita a una nuova avventura bellica israeliana, che avrebbe scatenato reazioni e richiamato un più massiccio intervento americano.
Le convergenze parallele Israele-Usa
Al di là della rivelazione, a suggerire un’attuale convergenza parallela tra Pentagono e governo israeliano sono le dichiarazioni incrociate Netanyahu-Pompeo riguardo i recenti raid Usa in Iraq e Siria.
Il premier israeliano li ha definiti “importanti” (Timesofisrael), mentre il Segretario di Stato Usa ha ringraziato pubblicamente Israele per l’assistenza offerta nell’operazione (Middleeastmonitor).
Una dichiarazione, quest’ultima, che ha voluto rivendicare davanti al mondo la cooperazione israelo-americana per i raid.
Parole che non aiutano a sedare le tensioni e che peraltro risultano in contrasto con le regole basilari della Sicurezza israeliana, che vuole non siano rese pubbliche le sue operazioni segrete proprio per evitare escalation rischiose per la sicurezza di Tel Aviv (Haaretz).
A quanto pare qualcuno sta giocando col fuoco, come mette in evidenza una dichiarazione successiva ai raid del Capo del Pentagono, Mike Esper, il quale ha detto che un’eventuale risposta ai raid da parte delle milizie iraniane innescherà un attacco “preventivo” Usa (New York Times).
Parole che lasciano aperte varie possibilità, tra cui quella di un attacco scatenato da un allarme infondato, come avvenuto in tanti conflitti Usa.
E che innescano altra tensione, peraltro subito dopo le dichiarazioni di segno opposto del generale Hossein Salami, comandante delle Guardie rivoluzionarie iraniane, il quale ha affermato che Teheran “non sta cercando la guerra”, anche se è pronta a difendersi (Tansim agency).
La guerra da evitare
Insomma, si susseguono tentativi di forzare un nuovo conflitto mediorientale, che Netanyahu potrebbe vedere con favore in vista delle elezioni politiche del prossimo marzo, per “convincere l’elettorato israeliano che non vi è nessuna alternativa alla sua leadership”. Prospettiva accennata in un articolo di Haaretz come pericolo da sventare.
Una prospettiva che incontra favori in ambito americano. Quanti temono la rielezione di Trump, infatti, possono essere tentati dall’idea di trascinare il Paese in una grande guerra prima delle presidenziali, perché possibili incidenti di percorso possono rappresentare un’insidia per il presidente.
E perché l’inizio di un nuovo conflitto mediorientale rappresenterebbe un palese tradimento delle sue promesse elettorali, volte a chiudere il tragico capitolo delle guerre infinite. Potrebbe insomma alienargli elettori.
La prospettiva di un conflitto trova consensi anche in altri ambiti Usa, che, pur non nutrendo ostilità esistenziali verso il presidente, temono però la sua prospettiva di ritirare l’America dalla scena mondiale.
Una prospettiva, quest’ultima, che può dispiegarsi con più agio nel corso del secondo mandato, nel quale sarà più libero perché non deve pensare a un’ulteriore elezione.
Da qui l’idea di impelagare più a fondo gli Stati Uniti in Medio oriente, con iniziative che rendano non più agibile l’ipotesi di una “ritirata”.
L’azzardo politico di Netanyahu
Ma al di là degli interna corporis americani resta lo scontro che si sta consumando all’interno di Israele, dove il nodo tra la politica estera e quella interna è inestricabile.
Netanyahu sta giocando il tutto per tutto, come dimostra la richiesta al Parlamento di garantirgli l’immunità dal processo che lo perseguita.
In realtà il premier israeliano non mira tanto a ottenere tale scudo protettivo, almeno nell’immediato: sa bene che rischia di non avere la maggioranza in parlamento per ottenerlo.
La mossa serve piuttosto a evitare che inizi il processo a suo carico, che sarebbe devastante per la sua immagine e per l’esito elettorale.
Infatti, la richiesta di immunità sospende i procedimenti, almeno fino a quando il Parlamento non l’accoglierà o respingerà.
Così, dopo aver chiesto l’immunità, Netanyahu sta lavorando perché la richiesta sia esaminata dopo il voto.
Un azzardo, perché i suoi oppositori stanno tentando, al contrario, di ottenere un subitaneo verdetto parlamentare, immaginando di avere i voti per rispedire al mittente la richiesta.
L’esito di questo ennesimo braccio di ferro è incerto, dato che le norme sono interpretate a seconda dell’opposta convenienza.
Netanyahu non arretra. E neanche i suoi avversari, da cui uno scontro politico mai avvenuto in Israele. Di interesse globale, come dimostra l’ipotesi di iniziare una nuova guerra regionale.
Nella foto in evidenza, il Procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit