Trump: l'impeachement sembra destinato a chiudersi
Tempo di lettura: 4 minutiColpo ferale per l’impeachement: il senatore repubblicano Lamar Alexander, poco prima del voto al Senato sulla possibilità di ammettere nuovi testimoni, dichiara che, nonostante ritenga inappropriati i comportamenti di Trump, voterà contro (New York Times).
La questione dell’ammissione di nuovi testimoni nel procedimento è cruciale per il successo dell’impeachement, dato che, se non saranno ammessi, è quasi impossibile che il Senato voti per la rimozione del presidente come avvenuto alla Camera. Troppo ampia la maggioranza dei repubblicani.
Impeachement: un voto in meno, crolla il castello?
Ai democratici, che contano 47 eletti al Senato, servivano quattro voti dei repubblicani per far passare la loro linea. Alexander sembrava essere uno dei quattro papabili.
La sua dichiarazione rende più probabile il rigetto della richiesta. Per i promotori dell’impeachement si prospetta una sconfitta bruciante, che preannuncerebbe un’assoluzione prossima di Trump, che egli spera rapida.
Trump dunque sembra avviato alla vittoria. Gli è costato non poco: ha dovuto cedere sull’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani, che per poco non scatenava una guerra di portata globale, e ha dovuto regalare a Netanyahu l’annessione di parte della Cisgiordania a Israele (perché a questo si riduce il cosiddetto Accordo del Secolo).
Cedimenti alla linea neocon che non vanno addebitati al solo presidente. I democratici, infatti, sono stati parte attiva in tutto ciò, costringendo Trump in un angolo.
D’altronde a gestire l’impeachement sono stati i democratici liberal – i clintoniani -, di fatto costola sinistra dei neocon.
Le responsabilità dei democratici
L’ala radicale dei democratici, quella che si identifica con Bernie Sanders, benché forte nella base del partito, non ha saputo, o voluto, distinguersi dai liberal, venendo trascinata in questo gioco al massacro.
Così il procedimento di impeachement è stato gestito interamente da liberal e neocon, in particolare da questi ultimi, come denota il duello Trump-Bolton.
I testimoni a carico del presidente provengono quasi tutti dall’Ufficio dell’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale e hanno riferito fatti che, al tempo, come hanno dichiarato essi stessi, erano sono stati oggetto di irritazione di Bolton nei confronti del presidente (sul punto, vedi anche The Hill).
Peraltro, all’approssimarsi del voto cruciale al Senato, Bolton ha fatto di tutto per essere convocato come nuovo testimone d’accusa, suscitando non poche preoccupazioni in Trump.
Così Bolton, agli occhi dei democratici, ha rivestito per mesi i panni dell’eroe della democrazia americana contro la tirannia di Trump, nulla importando che l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale in realtà sia uno dei più pericolosi guerrafondai in circolazione, come da critiche mosse dagli stessi ambiti democratici.
Certo, per gli ambiti vicini a Sanders era difficile non assecondare la spinta dei liberal per estromettere Trump dalla Casa Bianca. Rischiavano di perdere la faccia di fronte al loro elettorato di riferimento che nutre un’avversione profonda per il presidente.
Avrebbero potuto dichiarare che rifiutavano la testimonianza di un guerrafondaio come Bolton, così lontano dalle loro prospettive di politica estera e troppo incline alla manipolazione per poter credere alle sue parole.
Ma si sarebbero esposti alle critiche dei liberal, che avrebbero potuto presentarsi all’elettorato americano come gli unici esponenti politici che lottavano per liberare l’America da Trump.
Cosi se il presidente ha dovuto anteporre le proprie ragioni politiche alle sue prospettive di politica estera, va registrato che lo stesso hanno fatto i duri e puri che fanno riferimento a Sanders… Così va il mondo.
Un pareggio che vale come una vittoria
In fondo Trump ha provato a lanciare un Sos ai radicali dem, affermando in un tweet che se avesse ascoltato il suo Consigliere per la Sicurezza nazionale “saremmo già nella sesta guerra mondiale” (Businessinsider).
Iperbole, certo, ma neanche tanto: Bolton aveva suggerito di fare guerra all’Iran, al Venezuela, alla Corea del Nord, di intervenire in Siria, di sostenere una nuova guerra in Ucraina contro il Donbass e altre amenità del genere.
L’affondo di Trump ha anche un significato più alto: intende rassicurare i suoi elettori che i suoi cedimenti ai neocon sono tattici, che non ha cioè abbracciato la loro visione politica.
Insomma, se tutto andrà come sembra dover andare, l’eroe dei democratici non testimonierà.
Ma dire che Bolton ha perso la sua battaglia è quantomeno azzardato. L’uccisione di Soleimani è un suo grande successo personale, dato che fu lui il primo a suggerirlo a Trump, e l’annessione di parte della Cisgiordania a Israele appartiene al suo background sul conflitto israelo-palestinese.
Ha perso la guerra, ma vinto due battaglie non secondarie. La sua influenza nella politica americana non sembra dunque destinata a scomparire.
Per quanto riguarda Trump, un voto al Senato conforme ai suoi desideri avrebbe il valore di una grande vittoria nei confronti del partito democratico.
Ma nella sua lunga e sanguinaria guerra contro i neocon e le loro guerre infinite avrebbe un significato assimilabile a un pareggio. Che però, per come si erano messe le cose, vale anch’esso come una vittoria.
Ps. A conferma di un ridimensionamento delle pressioni di Bolton, la notizia del divieto alla pubblicazione di un suo volume sull’Ucrainagate contro Trump da parte della Casa Bianca. Sul libro si sta giocando una lunga e faticosa querelle, ma è stato bloccato prima del voto al Senato, sul quale avrebbe potuto influire non poco.