Netanyahu, l'accordo arabo-israeliano e le elezioni USA
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Ciò che ha fatto Trump in Medio oriente non sarà disfatto da Joe Biden, nel caso diventasse lui il prossimo presidente degli Stati Uniti. Così per il riconoscimento del Golan come territorio israeliano, così per quello di Gerusalemme come capitale di Israele, così per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi arabi sunniti.
Decisioni ormai irrevocabili, almeno per i prossimi anni. Anche se Biden non le approvasse, al massimo suggerirebbe correttivi.
Così Trump ha regalato a Israele il Golan, che inizia a essere oggetto di investimenti specifici (Timesofisrael). E ha creato una nuova entità geopolitica, data dalla cooperazione tra Israele e Paesi arabi sunniti.
Tale entità sta compiendo i suoi prima passi, ma è in via di rapida espansione, dato che agli Emirati arabi si è già unito il Bahrein ed è prossima l’integrazione del Sudan.
A questi si aggiungerà prima o poi anche l’Arabia saudita, passo complicato dal fatto che i Saud sono i custodi dei luoghi santi dell’islam: il rischio di lacerazioni nell’umma, la globalità dei fedeli islamici, è alto. Complicazioni che però non riguardano altri Paesi arabi del Golfo e del Mediterraneo.
Un nuovo protagonista della geopolitica
Tale entità geopolitica, potendo godere delle risorse israeliane e delle finanze congiunte arabo-israeliane, è proiettata a diventare protagonista del Mediterraneo, erodendone lo storico influsso europeo (britannico, ma soprattutto francese, l’Italia è ormai marginale), e proponendosi prepotentemente come attore globale.
Le prospettive mediterranee di cui sopra creano conflittualità con Ankara, dato che Erdogan vede minato il suo sogno neo-ottomano.
E però è significativo il fatto che, subito dopo la creazione di tale entità, la prospettiva neo-ottomana si sia proiettata verso un’altra direttrice, quella asiatica, con l’aggressione dell’Azerbaijan, sostenuto dalla Turchia, del Nagorno-Karabach.
Una mossa che sembra avere il tacito sostegno di Tel Aviv, come abbiamo accennato in altra nota.
Così se oggi il ripristino delle relazioni ad alto livello tra Ankara e Israele è arduo, non è impossibile che ciò possa avvenire in futuro, con implicazioni evidenti in termini di crescita esponenziale dell’entità geopolitica arabo-israeliana.
Resta il nodo della Palestina, che la creazione di tale entità ha reso ancora più marginale. La decisione di costruire altre 2000 unità abitative in Cisgiordania, presa in questi giorni e in parallelo agli accordi con Abu Dhabi, è passo alquanto simbolico.
Indica che l’idea di annettere parte della Cisgiordania, sospesa per non porre criticità allo sviluppo dei legami con i Paesi arabi, può essere messa in pratica in altro modo, senza proclami allarmanti.
Come resta il nodo Iran, punto di riferimento del polo alternativo mediorientale. Solo il tempo dirà se l’intesa arabo-israeliana accelererà un conflitto diretto o lo sederà, mentre la guerra a bassa intensità e per procura nell’arco sciita, che va da Teheran al Libano, sembra destinata a durare.
Tante, insomma, le direttrici di espansione della nuova entità geopolitica e tante le criticità e i cambiamenti che porrà a breve nell’attuale assetto mediorientale e mediterraneo (e quindi europeo). E indubbio il suo protagonismo di prospettiva.
Una vittoria di Netanyahu, dunque, forse la più grande della sua carriera politica. Legittime, quindi, le parole che ha speso al momento di ricevere la prima delegazione ufficiale degli Emirati arabi nel suo Paese: “Oggi stiamo scrivendo la storia“.
Netanyahu e le elezioni Usa
Resta da capire se il suo più grande trionfo non coinciderà con la sua fine politica, date le imminenti elezioni Usa.
Netanyahu non ha sostenuto Trump come fece nel 2016, quando fu protagonista della sua elezione. Anzi, per buona parte della campagna elettorale gli ha remato contro per spuntare il prezzo più alto possibile al suo appoggio (cioè l’intesa in questione) e perché non ha mai avuto un feeling con Trump (ricambiato).
A porre criticità nei loro rapporti il desiderio del presidente Usa di smobilitare la presenza americana dal Medio oriente, idea accanitamente avversata dal premier israeliano.
Ora che il suo sospirato progetto politico è andato in porto, Netanyahu si è deciso ad appoggiarlo, nonostante le diffidenze per la libertà che gli riserverebbe un eventuale secondo mandato presidenziale.
Ciò perché sa bene che, nonostante le distanze, Trump non farebbe mai nulla contro di lui, mentre sa che gli ebrei americani che voteranno Biden non lo amano, per usare un eufemismo.
Tale comunità, infatti, da tempo è ingaggiata contro Netanyahu, sia attraverso i suoi referenti politici, sia attraverso le associazioni che la rappresentano.
Da considerare anche che Netanyahu sta vivendo un momento critico. La sua gestione della crisi causata dal Covid-19 è pesantemente criticata in patria.
Critiche che vanno a sommarsi alle precedenti, prodotte dal suo protagonismo, che ha avuto l’esito di polarizzare la società israeliana, metà della quale da tempo vuole la sua defenestrazione.
Le piazze si riempiono di manifestanti che ne chiedono le dimissioni e il Likud sta perdendo consensi a destra, parte dei quali si sono orientati verso il partito Yamina, guidato da Naftali Bennet.
Insomma, se vince Biden è probabile che si ritrovi preso tra due fuochi. Certo, al solito, conta far fronte alla tempesta, ma sa anche che potrebbe travolgerlo.