Coronavirus: Bergamo e Brescia interpellano
Tempo di lettura: 3 minutiÈ iniziata una nuova fase nell’affrontare il coronavirus: si è passati a una gestione più convergente, nei limiti del possibile della dialettica politica, tra governo e opposizione, cosa che non può che aiutare il Paese, anche se i difetti di approccio pregressi restano e restano tante le domande e le perplessità sulle misure varate (e su quelle precedenti ancora inevase, come le tante casse integrazione non pagate da mesi: cosa si aspetta a correggere?).
Anche l’idea di fissare dei criteri per suddividere le zone a rischio o meno è un passo avanti, che certo avrebbe dovuto essere fatto molto prima. Tant’è. Dubbi, perplessità e conflittualità, anche tra Regioni e autorità centrali, restano, ma una minima razionalità di approccio inizia a riscontrarsi.
I numeri del contagio continuano a salire, ma quel che vediamo oggi sono i contagi, le patologie e i decessi che vengono dai giorni precedenti. Per osservare i frutti delle misure di questi giorni occorre attendere.
Si attendono, ovviamente, i vaccini, si spera che si sia iniziato a predisporre piani accurati per la produzione e la distribuzione, cosa che potrebbe abbreviare, anche se di poco, il lungo inverno pandemico.
Intanto si può osservare come Bergamo e Brescia, le province più colpite nella prima ondata, registrino una diffusione scarsa del virus, soprattutto in rapporto al resto della Lombardia.
Di certo, la terribile esperienza del passato ha portato i cittadini delle due città a un rigore diverso che altrove. Ma si può comunque porre la domanda sulla possibilità che la larga diffusione del virus in passato abbia prodotto un qualche attutimento nella diffusione odierna.
Di certo, la diffusione nelle due province è stata massiva, molto più larga dei numeri registrati ufficialmente al tempo, dati i tanti asintomatici e pauco-sintomatici che nella scorsa stagione sono passati inosservati, anche perché la terribile emergenza costringeva a restringere le maglie degli accertamenti allo stretto necessario, dove si è potuto (e non a scanso di errori).
Si è parlato diffusamente della possibilità di un’immunità di gregge, sulla quale c’è controversia, o della possibilità che le reinfezioni siano rare e per lo più meno gravi. Sul punto non c’è convergenza e non ci sono evidenze scientifiche acclarate, ed è inutile dilungarsi.
Però sicuramente gli anticorpi sviluppati da quanti hanno attraversato la malattia durano nel tempo, anche se in maniera variabile.
Ed è possibile anche che alla loro scomparsa, come spiegano taluni virologi, resti comunque una memoria nel sistema immunitario, che saprebbe a questo punto reagire, più o meno efficacemente, alla ricomparsa del virus.
Domande tante, nessuna risposta scientificamente inattaccabile, anche per la difficoltà di trovare convergenze nell’ambito sanitario che dovrebbe darle.
Resta però la constatazione della contagiosità ridotta nelle due province, un fenomeno che, almeno si presume, sarà studiato per capire anzitutto se sia stato prodotto da un più marcato rigore dei cittadini locali o se, invece, sia da ricondurre a una qualche forma di immunità raggiunta dopo il flagello pregresso.
In attesa, c’è comunque da tirare un sospiro di sollievo per quanto sta accadendo, una delle poche buone nuove di questo anno nefasto. Sospiro di sollievo comunque a metà, perché, pur ridotte nel numero, le persone colpite dalla seconda ondata in queste province non devono passare inosservate. Un malato o un decesso vale tanto, oggi come ieri.