La mano tesa di Shimon Peres (e non solo) ai palestinesi
Tempo di lettura: 3 minutiAncora lui, Shimon Peres, il volto più dialogante di Israele. In un’intervista pubblicata ieri, giovedì, dall’agenzia France Press, il presidente israeliano tende la mano al collega palestinese Mahmoud Abbas sulla questione del riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite: «Ha dimostrato coraggio – dice Peres del suo omologo – non solo andando alle Nazioni Unite, una mossa che credo, dal punto di vista del tempo, sia arrivata al momento sbagliato, ma anche perché (Abbas) si è fatto avanti e ha detto “sono contro il terrorismo, voglio la pace”». Il presidente israeliano racconta di non aver sostenuto la richiesta palestinese di riconoscimento all’Onu, ma che Abbas aveva buone ragioni per scegliere quella strada: «Gli ho detto: “Aspetta, perché avere fretta”. Ma lui si è sentito abbandonato da noi, dall’America, dall’Europa e dal resto del mondo, e ha voluto fare qualcosa». (Nella stessa intervista, per inciso, Peres parla anche della minaccia nucleare iraniana: «Se il pericolo può essere allontanato senza metodi militari, perché no? Chi vuole altro sangue?»).
Il presidente non è solo. All’interno dei confini di Israele si moltiplicano le voci contrarie alla rigidità del governo Netanyahu. Tra i più attivi, negli ultimi giorni, c’è stato l’ex primo ministro Ehud Olmert. Uno che in passato si era guadagnato la fama di “guerrafondaio”, l’uomo della guerra contro il Libano del 2006 e dell’operazione Piombo fuso a Gaza nel 2008. Stavolta no. La scorsa settimana Olmert ha dichiarato il proprio appoggio alla richiesta palestinese al Palazzo di vetro. Poi – ospite a Washington del Saban Forum, un incontro annuale tra politici americani e israeliani – ha criticato duramente la decisione di Benjamin Netanyahu di riprendere la costruzione delle colonie ebraiche a est di Gerusalemme, nel cosiddetto settore E-1 della Cisgiordania. L’amministrazione americana, ha spiegato Olmert, è delusa dal governo israeliano: «Gli Stati Uniti hanno appoggiato il sistema di difesa Iron Dome, hanno sostenuto l’operazione a Gaza, hanno votato come Israele all’Onu, e adesso (Netanyahu) li mette in imbarazzo con una reazione punitiva contro i palestinesi». Come fa Olmert a conoscere così bene la posizione di Washington? Facile: gliel’ha esposta Rahm Emanuel, già numero uno dello staff di Barack Obama, ora sindaco di Chicago, amico personale di molti politici israeliani. I nuovi insediamenti, conclude l’ex premier israeliano, «sono uno schiaffo in faccia a Obama», ostacolano il processo di pace e qualsiasi «israeliano patriota» dovrebbe essere contrario.
Il fatto è che Netanyahu e il suo partito, il Likud, si stanno spingendo su posizioni sempre più oltranziste. Lo si è visto anche nelle primarie di due settimane fa, in cui il Likud ha scelto i suoi candidati per le elezioni del gennaio prossimo. Molti ministri in carica, espressione della componente più disposta alla mediazione del partito – come il vicepremier Dan Meridor e Benny Begin, figlio dell’ex primo ministro Menachem –, non hanno ottenuto la ricandidatura.
«Il problema – scriveva giorni fa Aluf Benn, direttore del quotidiano “liberal” Haaretz – è che i nostri politici preferiscono rinchiudersi nei loro bunker di Gerusalemme piuttosto che mettere il naso fuori dalla porta in cerca di opportunità». Opportunità, aggiunge Benn, come la primavera araba e lo stesso voto dell’Onu sulla Palestina. Netanyahu ha preferito giocare una vecchia carta, quella degli insediamenti nel quadrante che unisce Gerusalemme al resto della Cisgiordania, che «può seppellire la soluzione dei due Stati» (come spiegato da Daniel Seidemann, avvocato israeliano specializzato sulle contese territoriali intorno alla Città Santa).
Al di là della questione degli insediamenti, i sondaggi mostrano che il 67 per cento degli israeliani è favorevole a una ripresa dei negoziati con i palestinesi. Sono numeri che, con le elezioni alle porte, i politici di Tel Aviv non potranno ignorare del tutto.