Il dittatore e il Drago
Tempo di lettura: 3 minutiLa battuta di Draghi su Erdogan “dittatore” ha fatto il giro del mondo. Tanto da essere riportata sul New York Times, in un pezzo agiografico per il nostro presidente del Consiglio, che si appresta a “fare dell’Italia una forza nel continente come non lo era da decenni”.
Nell’articolo viene magnificata la nuova verve che incarnerebbe il nostro Presidente del Consiglio, al quale si dovrebbe anche la svolta dell’approccio europeo ai vaccini.
Draghi avrebbe infatti convinto la Ue a non esportare i vaccini Astrazeneca, che avrebbero dovuto essere spediti in Australia, per soddisfare prima i bisogni nostrani.
Una determinazione che avrebbe convinto le traballanti autorità di Bruxelles a una posa più muscolare nei confronti delle case farmaceutiche e quanto concerne.
Vero o falso che sia, in realtà la nota su Draghi sembra più un salvagente per evitare al nostro, le ovvie ritorsioni turche e per evitargli i rimbrotti della Ue, che con Erdogan sta trattando, al solito, per la questione migranti (soldi in cambio di restrizioni degli stessi in campi di detenzione, o come si voglia chiamarli).
Che è poi quel che Draghi è andato a trattare in Libia, hub di smistamento dei migranti in arrivo nel nostro Paese, oltre che a cercare di ripristinare il ruolo dell’Italia nel Paese, che abbisogna dell’energia prodotta in loco (una missione già in agenda, programmata dal precedente governo, non una immaginifica iniziativa del nostro…).
In realtà Draghi in Europa sta facendo quel che sta facendo per l’Italia, poco o nulla, come è ormai evidente dai tanti provvedimenti che ricalcano, con poche migliorie, favorite dallo stemperamento della situazione emergenziale (non ha dovuto gestire l’impatto iniziale), e da una coesione governativa assente nel precedente governo.
Non si tratta di sminuire la statura del presidente del Consiglio, quanto di riportare l’agiografia alla cronaca, e di prendere atto che Draghi, più che da dictator, come poteva legittimamente temersi per le modalità della sua ascesa, si sta muovendo con gesuitica flemma, privilegiando la gestione alla rivoluzione.
Ha dalla sua i media, tanto impietosi sul passato governo quanto pronti all’indulgenza, e al silenzio, con questo. La clemenza dei media, mai tanto fautori di un governo, con fervore che si riverbera evidentemente oltreoceano, offre a Supermario carte mai godute da un Primo ministro d’Italia.
Carte finora sfruttate pochino, in realtà, come dimostra anche la campagna vaccinale, sempre precaria, nonostante gli annunci di una prossima vittoria.
Patria di santi, eroi e navigatori, Draghi finora, più che eroe o santo, si è dimostrato un discreto navigatore, con navigazione che avrebbe potuto incontrare il primo scoglio con la battuta su Erdogan.
Si è voluto porre sulla scia di Biden, che ha dato dell’assassinio a Putin, e allinearsi al nuovo vento che soffia da Washington, che parla di diritti umani, da cui quel “dittatore” affibbiato a Erdogan. Si può dire finalmente…
Non tanto. Può dirlo l’America, che è Impero e, nonostante questo, peraltro non l’ha mai detto, perché la Turchia la teme, anche per il ruolo di nazione guida dei Fratelli musulmani. No, l’Italia non può permettersi certe libertà, né coi turchi né con altri.
Mettersi contro Erdogan è rischioso, come ben sanno in Siria che le sue bande hanno straziato; o in Armenia, contro la quale ha appoggiato l’aggressore azero; o quelli del Donbass, in Ucraina, che nella guerra contro Kiev si sono trovati ad affrontare battaglioni di jihadisti inviati da Ankara; o gli stessi tedeschi, che, avendolo contrariato, si son visti piovere addosso milioni di rifugiati e altro.
Certo, c’era da puntellare la missione in Libia, dove Draghi sta tentando di riguadagnare all’Italia spazi rubati dai turchi, ma metterseli contro non è poi una grande trovata. Il rischio di vedersi trascinati in scontri locali non va trascurato (morire per Tripoli?).
Quando l’Italia era davvero grande, quando poteva interloquire con tutti quasi da pari a pari, evitava con cura certe pose muscolari, semplicemente perché non possiamo permettercele.
Né Draghi può sperare che basti un articolo del New York Times o una pacca sulla spalla di qualche amico americano a evitargli ed evitarci guai, che se arriveranno, semmai attireranno addolorata partecipazione e null’altro.
O davvero qualcuno spera che, in caso di scontri in Libia, gli Usa verranno a difenderci? O in caso si aprissero i rubinetti dei migranti, oggi sigillati dal Covid, qualcuno aprirà le porte di casa per impedire che ne veniamo sommersi? O ci sosterrà in caso di rappresaglie altre e più oscure?
Il banchiere prestato alla politica deve ancora imparare l’arte della diplomazia. L’indulgenza diffusa l’aiuta, ma deve anche aiutarsi da sé. Anzitutto evitando di proporsi e proporre l’Italia come quel gigante politico che non è (se non per qualche giornalista da riporto).
Il rischio di incappare in grane è alto, come accadde per la vicenda dei “marò”, che l’Italia approcciò con piglio da potenza, per poi risolversi a pietirne la scarcerazione dalle autorità indiane, che ovviamente nicchiarono. Draghi può imparare, speriamo lo faccia in fretta.
A meno che non immagini la sua missione “atlantista” più importante di quella affidatagli dall’Italia. In tal caso, siamo nei guai. Si crede e si spera che non sia così.