Caravaggio, Madonna del Rosario
Napoli, anno 1607. A Caravaggio in fuga da Roma viene commissionata una grande tela di oltre tre metri dedicata alla Madonna del Rosario. Un soggetto di devozione che ha tanti precedenti, a cominciare da quello celebre di Lorenzo Lotto a Cingoli. Ma Caravaggio anche in questo caso non sta dentro lo schema: lo sopravanza con un’intuizione che fa irrompere la vita dentro la tela.
È il Caravaggio contaminato dalla vitalità pulviscolare di Napoli quello che immagina quest’opera oggi conservata al Kunsthistorishes Museum di Vienna. Come nell’altro capolavoro napoletano delle Sette opere di Misericordia, il popolo invade letteralmente la tela, portando il suo “disordine”. Ed è proprio su questo dettaglio che vogliamo soffermarci.
Sopra, al vertice di un triangolo compositivo perfettamente congegnato, c’è Maria con il Bambino, lei stessa bellissima popolana, che con la mano autorizza san Domenico a distribuire le coroncine del Rosario a chi le chiede. E sono in tanti a chiederle, in una gara di mani che si allungano per cercare di averne una.
È un dettaglio meraviglioso, di una semplicità che non chiede di essere schiacciata da descrizioni o da aggettivi. Basta guardare quest’umanità sospinta verso Maria; un’umanità che chiede di potersi affidare a lei, di esserle vicina attraverso la mediazione di quella coroncina e l’umilissima ripetizione dell’Ave Maria. Niente di più. Non è un’umanità devota a prescindere. È un’umanità vera; sono mani e corpi reali quelli che Caravaggio porta sulla tela.
Non c’è niente di edulcorato; non c’è nessun sentimentalismo devozionale. Vediamo solo mani aperte e tese, occhi che domandano, cuori pieni di un impeto semplice. A guardarli siamo sospinti anche noi. Come non desiderare di essere anche noi insieme a quel pezzo di popolo? Pochi quadri al mondo accendono la tentazione di entrarci, di essere anche noi parte di quell’istante. Ma basta anche guardare…