Netanyahu non ce la fa, deve rimettere il mandato
Tempo di lettura: 4 minutiMomento delicato in Israele, dato che Netanyahu non è riuscito a formare un governo e stasera dovrà riconsegnare il mandato nelle mani del presidente, che dovrà incaricare un altro.
Il premier ha ancora qualche ora di tempo, ma è più che arduo che riesca: troppi i veti incrociati contro i quali si è scontrato, troppi i nodi da sciogliere rimasti tali nonostante le estenuanti trattative, durante le quali ha dato fondo a tutte le sue astuzie.
A sbarrargli la strada, in particolare, il partito ultra-ortodosso Religious Zionist, guidato da Bezalel Smotrich, rimasto fermo nella sua avversione a un’alleanza con gli arabi dell’United arab list, che aveva dato la sua disponibilità a un accordo.
Bizzarro che ad affondare le speranze di Netanyahu sia stata proprio quella destra religiosa che nel suo lungo regno ha favorito in tutto, aprendo ad essa nuovi spazi nell’ambito politico-sociale israeliano.
Già, perché un accordo con gli arabi gli avrebbe fatto superare l’impasse creata dall’opposizione che aveva trovato negli altri due partiti di destra, Yamina di Bennet e New Hope di Gideon Sa’ar (da tempo nella politica israeliana mancava la parola “speranza”, cancellata in nome della “sicurezza”; il primo a provare a ri-utilizzarla dopo anni di oblio fu Benny Gantz, ma non riuscì…).
Se l’opposizione irriducibile della seconda era scontata, dato che Sa’ar ha un conto personale con il premier, quella di Yamina lo era un po’ meno, perché Bennet avrebbe potuto cedere alle sirene del premier sotto la pressione dei suoi compagni di partito. Non è andata così, e anche l’ultimo tentativo di Netanyahu, di offrire a Bennet il premierato in un governo di coalizione, è stato respinto.
L’azzardo di Bennet
Bennet intravede la possibilità che il suo rivale storico possa uscire di scena e non vuole perdere l’occasione: senza Netanyahu si aprono nuove possibilità a destra e lui aspira a diventare il playmaker di questo spazio politico.
Inoltre, appena Netanyahu rimetterà il mandato, sarà lui l’ago della bilancia della politica israeliana e non vuole perdere tale occasione. Perché quando il presidente dovrà conferire l’incarico a un altro esponente politico, le scelte sono due: o Yair Lapid, che guida la coalizione di centrosinistra, oppure lo stesso Bennet, come spera il leader di Yamina.
Yamina ha solo sette eletti alla Knesset, ma potrebbe lo stesso tentare il colpaccio, se Netanyahu chiedesse alla sua coalizione di dare tale indicazione al presidente.
Se il presidente accettasse, Bennet potrebbe tornare a intavolare trattative con Netanyahu da una posizione di forza e creare un governo di destra con un Netanyahu depotenziato.
Correrebbe qualche rischio, data l’astuzia del premier, che alla lunga potrebbe detronizzarlo, Ma potrebbe preferire questo a un accordo col centrosinistra, che rischia di erodere il suo sogno di guidare la destra, dato che parte di questa lo bollerebbe come traditore.
In caso contrario, potrebbe decidersi finalmente ad accettare l’accordo che gli offre il centrosinistra e dar vita a un governo di unità nazionale che lasci fuori Netanyahu.
Le trattative intavolate finora in tal senso non sono andate bene. Bennet ha chiesto più di quanto gli veniva offerto, perché sa che il passare del tempo gli consentirà di ottenere sempre più dai suoi interlocutori, disposti a tutto pur di far fuori Netanyahu.
Un gioco ad alto rischio quello di Bennet, dato che potrebbe finire per favorire Netanyahu, che egli vuol far fuori come e quanto il centrosinistra. Ma il leader di Yamina è fatto così: è in politica da molto tempo, ma ancora non ha imparato a misurare le proprie ambizioni con la realtà, cosa che spesso lo ha indotto in errori marchiani.
Tale la situazione della politica israeliana, che vive un momento cruciale, con Netanyahu costretto sulla difensiva sia a livello politico che giudiziario, dato che il processo che lo vede imputato va avanti.
La guerra segreta all’Iran: ripensamenti
In attesa degli sviluppi, va segnalato che in una riunione a porte chiuse dei responsabili della Difesa israeliana sono stati avanzati seri dubbi sulle operazioni segrete che da anni l’esercito e l’intelligence israeliana dispiegano contro l’Iran nella regione.
Riportiamo l’incipit di un articolo di Haaretz: “L’establishment della Difesa [israeliana] ha sollevato dubbi sull’efficacia di alcune operazioni portate contro l’Iran”.
A tema gli assassini mirati, il sabotaggio di petroliere, gli attacchi contro obiettivi strategici all’interno dell’Iran, i bombardamenti in Siria e le tante operazioni segrete contro le milizie sciite in Iraq, Siria e Libano.
A minare l’efficacia di tali operazioni, le nuove prospettive aperte per il Medio Oriente dall’amministrazione Biden e la presenza ormai irreversibile della Russia nella regione, spiega Haaretz.
Tanto che nell’ambito dell’assise si è prospettato che “il potenziale danno di certe azioni superi i loro benefici e che si debbano trovare altri modi per fermare il trinceramento iraniano nella regione”.
Non sappiamo se tali dubbi siano forieri di nuove possibilità di pace per la regione, di certo il fatto che inizino a porsi è indice che magari qualcosa può cambiare. Sarebbe a beneficio di tutti, dato che certe operazioni segrete non solo hanno rischiato di innescare conflitti aperti, ma contribuiscono non poco a minare la stabilità regionale.