Risolvere la crisi nucleare coreana, prima che ri-esploda
Tempo di lettura: 3 minutiNegli ultimi mesi si è tornato a parlare della Corea del Nord, Paese fulcro di una criticità globale che sotto l’amministrazione Trump ha conosciuto grande visibilità, grazie ai colloqui altalenanti tra Kim e il presidente americano e la storica passeggiata dei presidenti delle due Coree dentro i confini della controparte.
Sospesi tra Washington e Pechino
Purtroppo il sogno di un accordo tra Stati Uniti e Corea del Nord per fermare la corsa di Pyongyang al nucleare si è infranto contro il baluardo costruito dai falchi Usa a difesa della crisi esistente, che lascia aperte autostrade alla conflittualità inter-coreana, creando non pochi grattacapi a Pechino, che paventa un conflitto a ridosso dei suoi confini.
Seppelliti i progetti di pace con gli Usa, Pyongyang ora guarda a Pechino, tanto che Kim ha dichiarato che si adopererà per rafforzare i rapporti con il potente vicino (Associated Press). D’altronde deve far qualcosa: il suo Paese, assediato dalle sanzioni internazionali, è preda della pandemia e di una tragica carestia, col rischio di una pericolosa destabilizzazione (National Interest).
Tale disposizione, però, sottintende che Kim non spera più in un accordo con gli Usa, e aumenta vieppiù la criticità della penisola, dato che alla conflittualità locale andrà a sommarsi quella più fragorosa che anima i rapporti Pechino-Washington.
L’ipotesi di “stabilità strategica”
Sul National Interest, Timo Kivimäki scrive di un’ipotesi di stabilizzazione della penisola che, nella sua semplicità, è geniale. L’idea è quella di applicare alla penisola il concetto di stabilità strategica formulato da Thomas Schelling e Robert Ayson per i quali tale condizione si raggiunge quando “gli incentivi di entrambe le parti a iniziare una guerra o una corsa agli armamenti sono superati dai disincentivi”.
In poche parole, si tratta di “scoraggiare l’aggressione senza però incentivare una corsa agli armamenti minacciando i legittimi interessi di sicurezza dei nostri nemici“.
Un concetto del tutto diverso, scrive Kivimäki, da quello applicato “dal comandante in capo dello Strategic Air Command degli Stati Uniti, il generale Curtis LeMay, poco prima della crisi missilistica cubana”. Secondo LeMay, la deterrenza si sarebbe raggiunta impossibilitando il nemico a imporre la propria volontà su di noi, mentre “noi possiamo imporre la nostra volontà su di lui”.
Questa idea di deterrenza, registra Kivimäki, minacciando “i legittimi interessi dell’Unione Sovietica, ha portato a una corsa agli armamenti e a un’espansione orizzontale del potere militare sovietico”.
“La stabilità strategica – continua Kivimäki – richiede una differenziazione tra interessi di sicurezza legittimi e illegittimi. Richiede cioè una formula in cui nessuna delle parti sia in grado di imporre la propria volontà all’interno del territorio sovrano dell’altra. Se uno di queste può, l’altro avrà maggiori incentivi che misure disincentivanti per innescare una corsa agli armamenti o situazioni come la crisi cubana del 1962″.
La doppia chiave
“La stabilità strategica nell’era nucleare è garantita dalla reciproca capacità di portare un secondo colpo punitivo. Tuttavia, se tutti i paesi hanno capacità nucleari di secondo attacco, uno Stato irrazionale potrebbe usarla per un’aggressione non provocata. Inoltre, in una situazione del genere sarebbero probabili guerre accidentali. Infine, c’è il rischio che una potenza nucleare possa usare la sua forza per ricattare potenze non nucleari”.
“La necessità di prevenire il ricatto nucleare nordcoreano è l’argomento usato da alcuni sudcoreani per sviluppare una capacità nucleare indipendente o condivisa tra Stati Uniti e Corea del Sud. I nordcoreani , a loro volta, hanno usato questa logica per sostenere la necessità di una capacità nucleare indipendente del Paese contro il ‘ricatto nucleare statunitense’”.
“Per creare una stabilità strategica nella penisola coreana – scrive Kivimäki – è necessario trovare un modo in cui sia i sud che i nordcoreani siano protetti grazie alla deterrenza nucleare, senza con ciò incrementare un militarismo dal grilletto facile”.
“Ciò può essere dato attraverso la costruzione [di una difesa nucleare] a doppia chiave. Le armi nucleari statunitensi potrebbero essere utilizzate solo in difesa della sovranità sudcoreana nel ristretto ambito della penisola coreana, attraverso un accordo di condivisione nucleare in stile NATO. Un simile accordo renderebbe possibile l’uso di armi nucleari solo se sia gli Stati Uniti che la Corea del Sud concordassero” sul loro utilizzo.
“Allo stesso modo, le armi nucleari nordcoreane potrebbero essere inserite nell’ambito di un accordo a doppia chiave nordcoreano-cinese. Tali armi potrebbero quindi essere utilizzate solo per la protezione del territorio sovrano nordcoreano, con l’intesa che sia i leader cinesi che nordcoreani siano entrambi necessari per l’autorizzazione all’uso delle armi nucleari nordcoreane”.
“Questa struttura [di difesa nucleare] soddisferebbe i requisiti minimi del Trattato di non proliferazione, negando alle potenze non nucleari armi nucleari indipendenti. Tuttavia, offrirebbe ai coreani una protezione simmetrica sotto un ombrello nucleare”.
“Poiché il TNP [Trattato di non proliferazione nucleare] prevede anche la riduzione e la demolizione degli arsenali nucleari delle potenze nucleari, nel negoziato per la stabilità strategica a lungo termine della penisola coreana dovrebbe essere inclusa anche la questione delle capacità nucleari cinesi e americane”.
Ipotesi geniale, e come tale sarà , ovviamente, obliata, che avrebbe come effetto un primo negoziato tra Cina e Stati Uniti sulle testate nucleari, tema che a Washington sta molto a cuore, tanto da chiedere più volte alla Russia di farsi mediatrice con Pechino perché accetti di avviare una trattativa in tal senso.