Afghanistan: gli Usa non erano parte della soluzione, ma del problema
Tempo di lettura: 7 minutiKabul cade, e gli Usa vivono un nuovo momento Saigon. I talebani controllano l’Afghanistan, avendo vinto la guerra iniziata nel 2001, la guerra più lunga intrapresa dall’America.
Tanti giornalisti e politici che non saprebbero neanche indicare dove si trova l’Afghanistan sul mappamondo, esprimono il loro dolore per quanto sta avvenendo, allarmando sui pericoli di tale infausto sviluppo della storia, piangendo sulla sorte delle donne afghane e altro, dopo aver ignorato per decenni la tragedia che ha flagellato il paese.
Non siamo fan dei talebani, lo esplicitiamo perché il precedente articolo sul tema ha suscitato incomprensioni, nondimeno non siamo meravigliati di quanto sta avvenendo, sviluppi ovvi e che stridono con la meraviglia che promana da tante narrazioni.
Meraviglia e allarme, come se il Paese fosse di colpo precipitato in un incubo, dimenticando che tale incubo è iniziato decenni fa, e ha maciullato migliaia di vite.
Un incubo raccontato dalla storia, che chi scrive ha seguito da vicino, avendo dedicato all’Afghanistan il suo primo articolo di politica internazionale.
Tutto inizia alla fine degli anni ’70 con l’invasione sovietica, chiamata dalle autorità del Paese a puntellare il loro vacillante potere. Uno dei tanti conflitti della Guerra Fredda, che assicurava a Mosca e Washington piena libertà nelle loro aree di influenza, secondo il principio della non interferenza reciproca.
Ma a Washington, dove iniziava a prendere corpo la prospettiva di un Impero globale, vollero cambiare l’equazione di Yalta e decisero che la guerra afghana era un’occasione per porre grave criticità all’avversario.
Fu così creata al Qaeda, come fu chiamato il database che serviva a gestire la legione straniera di islamici che la Cia, tramite Osama bin Laden, iniziò a reclutare in giro per il mondo arabo e a riversare in Afghanistan per combattere i sovietici.
Una guerra costosa, che non poteva venire finanziata solo dai contribuenti americani. Fu così che, per pagare i mujaheddin si utilizzò il narcotraffico, e l’Afghanistan iniziò a essere disseminato di papaveri d’oppio.
Alla ritirata delle truppe dell’Unione sovietica (primo indizio del suo crollo) incapaci di sostenere quel nuovo metodo di guerra, tanto caotico e sanguinario (i partigiani non facevano prigionieri…), seguì un periodo magmatico.
La liberazione dall’invasore, piuttosto che portare pace, sprofondò il Paese in un caos ancora più profondo, con i vari signori della guerra, i più feroci capi dei mujihaiddin, a darsi battaglia per controllare città e regioni.
L’Afghanistan divenne preda di una destabilizzazione permanente, con un’unica costante, la coltivazione dell’oppio: il Paese ne divenne il più importante esportatore del mondo (l’80% del totale).
Più che probabile che i signori della guerra, ai quali serviva vendere l’oppio per finanziarsi, si rivolgessero agli stessi acquirenti di prima e che uguali fossero i canali bancari sui quali passava questo denaro sporco. E si può intuire quali fossero…
Ciò fino agli inizi degli anni ’90. Verso il ’93 apparvero d’improvviso i talebani. Ai confini tra Pakistan e Afghanistan iniziarono a spuntare come funghi madrasse che propagavano il verbo wahabita nella sua forma più integrale.
Un’iniziativa nella quale l’Arabia Saudita profuse miliardi di dollari e sostenuta dall’Isi, il servizio segreto pakistano, due stretti alleati degli americani, che dunque non potevano non sapere quel che si ordiva.
Così com’erano apparsi, i talebani iniziarono a prendersi il Paese, abbattendo uno a uno i vecchi signori della guerra. Un’onda in piena, irrefrenabile, un po’ come l’epifania dell’Isis in Iraq in tempi più recenti.
Uno sviluppo guardato con apparente preoccupazione da Washington, allora guidata da Bill Clinton, ma che nascondeva una malcelata soddisfazione, con tanto di supporto al lavoro dei suoi più stretti alleati – allora il Pakistan era tale – con armi, addestramento e altro.
Si stava creando il primo Califfato della storia moderna: un nucleo di integralismo islamico in Asia, dove tale forma di deriva islamista era ignota.
Non solo a ridosso dei confini della Russia, ma anche delle repubbliche ex sovietiche come Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Turkmenistan etc, dove larga era la presenza islamica.
Il verbo wahabita nella sua forma talebana avrebbe cioè potuto dilagare in queste repubbliche, bruciando i confini meridionali della Russia, con un incendio che l’avrebbe col tempo incenerita, dato che per sedarlo avrebbe consumato le sue residue risorse.
Senza indulgere in dietrologie, si può dire che se pure gli Usa non hanno creato i talebani, ne hanno di certo apprezzato la genesi e la loro rapida ascesa al potere.
Ma un imprevisto fece saltare tale prospettiva. Un imprevisto di nome Ahamd Masud che, attestato nel Nord dell’Afghanistan, sbarrò la strada ai telebani per anni, impedendo loro di dilagare.
Non solo Masud, i Paesi della regione, Russia, Cina e Iran su tutti, allarmati dalla follia che era stata creata nel cuore dell’Asia, iniziarono un’opera diplomatica volta a stemperare il pericolo, usando soldi per comprarsi la pace e la ragionevolezza delle tribù locali, che talebane erano di nome e non di fatto.
Riuscì, tanto che i talebani, da forza rivoluzionaria, divennero un potere stanziale, limitandosi a gestire l’Afghanistan e a offrire al mondo il loro triste spettacolo di integralismo islamico.
Su tutti il famoso quanto odioso burqua, variante rozza e locale del più elegante, ma non meno occultante, velo integrale, più o meno obbligatorio fino a poco tempo fa in altre nazioni dell’islam wahabita, e ancora molto diffuso, in particolare nella molto civile Arabia Saudita.
Ciò fino al 2001, quando i talebani fecero due errori gravissimi. Ospitarono il vecchio amico della Cia Osama bin Laden ed eradicarono le coltivazioni d’oppio dal Paese (come accertato dall’agenzia dell’Onu per il controllo internazionale delle droghe).
Che qualcosa di grave, anzi gravissimo, stesse avvenendo nel mondo fu chiaro quando, il 9 settembre del 2001, Masud rimase vittima di un attentato, perché il leone del Panshir, ignoto ai più, era un punto di equilibrio del mondo. Qualcosa si era rotto, nel profondo.
Un giorno di trepidazione. Poi, il giorno dopo l’attentato, la notizia della sua morte confermò i nefasti auspici. E arrivò l’11 settembre, l’attentato alle Torri Gemelle e al Pentagono.
Osama Bin Laden fu indicato come la mente di tutto e si chiese ai talebani di consegnarlo.
Dai talebani, divisi, vennero risposte alterne, un ufficioso quanto fantomatico diniego, ma nessuna risposta ufficiale. E il 7 ottobre la guerra iniziò.
Serviva una guerra per placare l’opinione pubblica americana, o forse la si era semplicemente cercata, ché la conquista di un Paese era un obiettivo più facile e spettacolare di una sfuggente caccia all’uomo.
Il mondo seguì gli Usa, sotto lo shock dell’11 settembre. La vittoria, disse George W. Bush, era obiettivo facile e, tra l’altro, avrebbe eradicato per sempre l’oppio afghano.
Ma gli Usa non si limitarono a vincere, rimasero in loco con l’obiettivo di costruire un Paese libero e democratico ed eliminare per sempre la minaccia talebana dal Paese e, con loro, l’oppio.
Non fu così. Il Paese, benché vi si svolgessero elezioni, fu preda di una cleptocrazia consegnata ai liberatori, con Karzai prima e Ghani dopo a fungere da presidenti fantoccio, che le cose importanti erano decise dagli Usa.
Il Paese è rimasto fermo, bloccato per sempre al momento dell’ingresso degli americani, che negli anni hanno controllato Kabul e poco altro.
D’altronde le montagne e le gole afghane avevano già inghiottito due imperi, quello britannico e quello sovietico, ed era destino inghiottisse il terzo.
L’oppio non sparì, anzi tornò, e l’Afghanistan toccò produzioni record.
Si potrebbe pensare che lo usavano i talebani per finanziarsi, ma le foto dei marines a guardia dei papaveri dicevano altro.
La sua vendita serviva a finanziare il Terrore internazionale, al Qaeda prima e l’Isis dopo, palese contraddizione dell’antiterrorismo militante.
L’occupazione Usa aveva anche suscitato speranze, ma presto il malcontento iniziò a dilagare. Le bombe l’hanno accompagnata in maniera costante, anche grazie a un’innovazione sperimentata qui per la prima volta in forma massiva: i droni.
Da remoto, gli addetti a questi nuovi strumenti di guerra, iniziarono una campagna alzo zero.
Dal cielo, iniziarono a far strage: ai matrimoni, ai funerali, nei mercati. Così alle incursioni e agli attentati telabani facevano pendant gli eccidi di civili – danni collaterali- made in Usa, in un botta e risposta nel quale era difficile distinguere torti e ragioni.
Uno strazio senza fine, che offriva nuove leve ai talebani e manovalanza al Terrore internazionale, come ben sanno Siria e Libia, dove affluirono anche milizie afghane a dar man forte ai regime-change supportati dagli Usa.
Un caos nel quale provò a insinuarsi anche l’Isis, che aveva come obiettivo i civili e i talebani stessi, ai quali volevano sostituirsi, ma trovò un argine proprio nei talebani.
La lunga e odiosa occupazione Usa offrì ai talebani una nuova occasione, potendosi presentare alla popolazione stremata come unica opposizione all’invasore, che si era presentato come liberatore, ma aveva fatto dell’Afghanistan il Paese più bombardato del mondo, come registrava la rivista del Mit.Tutto questo orrore non ha mai suscitato la minima parte delle reazioni sdegnate che si levano adesso, ora che l’America ha capito che era tempo di ritirarsi.
Gli Usa si sono ritirati e i talebani hanno preso il loro posto, come era logico accadesse, ché la geopolitica non conosce vuoti.
In Vietnam a prendere le redini del Paese furono i comunisti che mangiavano i bambini, qui i talebani che fanno lo stesso.
A muoversi è la mano potente della storia. Due considerazioni: la prima è che, come avvenuto per Siria e Libia, anche l’Afghanistan è rimasto incenerito dalle guerre infinite.
La seconda è che la strategia di cambiare i Paesi a suon di bombe non funziona.
Serviva la Politica, la diplomazia, e serviva un accordo con i Paesi confinanti, Cina, Russia, Iran, Pakistan, India su tutti, per trovare una via di uscita dal caos creato in trent’anni dagli errori e orrori degli Usa.
Ma il contrasto con Teheran, Mosca e Pechino era troppo forte. E gli Stati Uniti sono andati via così come sono entrati, come ladri nella notte.
Il punto è che non avevano molte alternative: non potevano più sostenere un’occupazione che finora è costata 2.5 trilioni di dollari e la cui unica prospettiva era la destabilizzazione permanente del Paese.
Ora limitarsi a urlare che i talebani mangiano i bambini è del tutto inutile, anche perché nessuno a breve si ripeterà in un intervento militare.
Occorre evitare che i talebani, che hanno preso il Paese quasi senza colpo ferire, cosa che pure va registrata con il dovuto sollievo, prendano derive pericolose, che li portino a incrudelire sulla popolazione o a riprendere la loro spinta propulsiva, facendo dilagare l’integralismo islamico oltre confine.
A porre un argine a tali prospettive dovrebbero essere chiamate le vittime di questa tragedia. Gli afghani che non si riconoscono nel loro integralismo e le nazioni asiatiche, le uniche che potrebbero risolvere questo rebus impazzito.
E ciò perché gli Usa, anche volendo accreditare loro una buona volontà, non sono mai stati parte della soluzione, ma del problema.
N.b. nella foto di copertina Aḥmad Massoud assassinato il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle torri gemelle.