3 Settembre 2021

La tradizione ebraica e le guerre di Israele

La tradizione ebraica e le guerre di Israele
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“Il concetto israeliano di libertà può essere formulato nel modo seguente: la libertà nello Stato di Israele, la sicurezza personale e comunitaria di tutti noi, non può esistere senza una sorta di forma di governo sui palestinesi. La maggior parte degli israeliani pensa che la propria libertà dipenda dalla sottomissione degli altri e che senza l’occupazione non possono essere liberi. Il desiderio dei palestinesi per il proprio stato ci obbliga a soggiogarli. Nel tempo, quell’argomento si rivela essere senza tempo. La stessa libertà dei palestinesi ci mette in pericolo e, quindi, saremo costretti a soggiogarli per sempre”.

Inizia così un lungo e dolente articolo di Mikhael Manekin su Haarezt sul conflitto israelo-palestinese, che vede tanti rabbini dare una giustificazione religiosa alle azioni contro i palestinesi, tanto che oggi ha “un sostegno entusiasta tra i circoli religiosi la concezione che vede l’IDF come un esercito sacro e le guerre di Israele come un obbligo religioso”.

“Negli ultimi anni – aggiunge Manekin  – tale obbligo ha assunto anche la forma di permissive sentenze halakhiche sulla ‘neighbor procedure” (cioè l’uso dei palestinesi come scudi umani), il saccheggio di terreni privati, la profanazione dello Shabbat a beneficio degli insediamenti, le trasgressioni commesse per soddisfare le esigenze del servizio di sicurezza Shin Bet, la violenza civile contro i palestinesi e altro ancora”.

Tutto ciò, secondo l’autore, sarebbe in contrasto con la tradizione religiosa ebraica, avendo più volte in passato i rabbini insegnato che un soldato ebreo debba avere come riferimento al quale ispirare le proprie azioni la misericordia di Dio, e cita in proposito le opere di Chofetz Chaim.

Manekin si chiede come sia stato possibile per la religione ebraica giustificare quel che un tempo era considerato errato. Tale cambiamento sarebbe iniziato con la nascita dello Stato israeliano. Chofetz Chaim, scrive infatti l’autore, “si occupava della moralità del singolo soldato ebreo, mentre questi rabbini [più moderni ndr] pongono lo stato ebraico al di sopra di essa”

Così da un testo: “La giustificazione per le nostre azioni in Terra d’Israele, per il nostro diritto di imporre la nostra volontà su una popolazione ostile, per il nostro diritto di stabilirci ovunque in tutta la Terra d’Israele, per il nostro diritto di sparare ai terroristi e far saltare le loro case anche in un ambito dove ci sono donne e bambini – la giustificazione di tutto questo non la troveremo nel quotidiano. Il nostro diritto a questo si trova a un livello completamente diverso: nel nostro diritto di esistere come popolo e nel nostro diritto alla Terra di Israele”

“Tale diritto – scrive  Manekin  – supera in importanza la coscienza del singolo ebreo e lo obbliga a ignorare attivamente la sua educazione. C’è qualcosa di ironico nel fatto che il modo per ‘vedere ed esaminare le cose con gli occhi aperti’ sia chiudere gli occhi alla sofferenza. Il ‘vedere’ richiesto al soldato ebreo tradizionalista sta nel porre il nazionalismo laico israeliano come il sovrano al quale dobbiamo rendere esclusiva fedeltà”.

“Israele è uno Stato laico, ma nonostante ciò i rabbini del sionismo religioso hanno deciso che le guerre di Israele, compresa la conquista dei territori, discendono dai comandamenti. Sono guerre in cui la partecipazione non deriva da un decreto regio, ma dal fatto che l’iniziativa della guerra è di Dio”.

In tutto ciò Manekin  rileva una contraddizione, dato che sono legittimate come  volere di Dio guerre e altre azioni che in realtà sono decise da uomini e governi.

“Il governo diventa re, il soldato (religioso o laico) incarna il kohen (sacerdote). Si sviluppano due pericolosi processi: l’individuo scompare […] e il commonweal secolare acquista un valore religioso […]. Non si tratta una ‘religiosità’ dello Stato, ma di una ‘nazionalizzazione’ della religione”.

Un’altra via che ha portato a legittimare la “sottomissione” dei palestinesiè stata l’estensione del concetto di autodifesa, già esistente nella tradizione ebraica.

“Il concetto israeliano di libertà – scrive Manekin  – può essere formulato nel modo seguente: la libertà nello Stato di Israele, la sicurezza personale e comunitaria di tutti noi, non può esistere senza una sorta di forma di governo sui palestinesi. La maggior parte degli israeliani pensa che la propria libertà dipenda dalla sottomissione altrui e che senza l’occupazione non possono essere liberi. Il desiderio dei palestinesi per il proprio stato ci obbliga a soggiogarli. Nel tempo, tale giustificazione si è rivelata come una prospettiva senza tempo. La stessa libertà dei palestinesi ci mette in pericolo e, quindi, saremo costretti a soggiogarli per sempre”.

“Questa nozione dovrebbe essere riconsiderata – aggiunge  Manekin -. La tradizione ebraica ha infatti qualcosa da dire sulla capacità della sovranità secolare di produrre bisogni immaginari. Non siamo occupanti perché dobbiamo occupare; siamo occupanti perché possiamo occupare. L’occupazione non è la prevenzione di un’azione specifica contro di noi, ma un fenomeno violento che accompagna la nostra vita […]. Ma privare le persone della loro libertà per paura che la usino contro di noi è una distorsione morale lontana dalla nostra tradizione. La sottomissione senza fine per paura di essere aggrediti non risponde a nessun criterio etico o tradizionale, che vede legittima l’autodifesa solo contro un’azione concreta”.

“Il risultato di questo peccato morale, oltre alla grande sofferenza che stiamo causando a milioni di persone, è la creazione di una contraddizione interna nel linguaggio della morale religiosa. La nostra libertà è legata alla sottomissione degli altri. Come può la libertà essere un concetto positivo se il nostro Stato esiste solo in forza della prevenzione della libertà altrui?”.

“Se comprendessimo il prezzo che viene pagato, che deve essere pagato, da milioni di persone per la nostra libertà, se comprendessimo il significato di sottomissione, non saremmo in grado di vivere la nostra vita normale […]. Se aspiriamo ad essere buoni ebrei, non possiamo radicare le nostre vite nella cecità e nella forza bruta”.

Non si tratta di aderire acriticamente alle tesi esposte da Manekin, data la complessità del conflitto israelo-palestinese, ma certo le sue riflessioni interpellano.