Afghanistan: G 7 o G 20, questo è il dilemma
Tempo di lettura: 3 minutiTante le notizie che vengono dall’Afghanistan, in questo momento al centro del mondo. Tra queste, val la pena rilevare quelle di rilevanza primaria, che cioè aprono prospettive.
La prima riguarda il contraccolpo geopolitico del ritiro: la guerra persa degli Stati Uniti sembra aver aperto nuovamente possibilità di manovra per un allontanamento dell’Europa da Washington.
G-7 vs G-20
Allargare l’Atlantico era la missione impossibile della comunità europea, nata appunto come entità autonoma, ma impossibilitata a deviare dalle direttrici del dogma atlantista, prima dalle consegne di Yalta poi dalla superfetazione dell’America diventata Unica Potenza Globale.
Tale missione impossibile sembra diventata improvvisamente possibile, almeno agli occhi di alcuni politici europei, dopo la sconfitta afghana. Lo ha detto esplicitamente il ministro della Difesa britannico, secondo il quale ormai gli Stati Uniti “non sono più una potenza globale, ma solo una potenza“.
Così, ad esempio, ha ripreso piede l’ipotesi della creazione di un esercito europeo, come da recenti auspici del presidente Mattarella, che toglierebbe agli Stati Uniti la gestione della Forza del Vecchio continente tramite la Nato. Ipotesi, però, sempre rinascente e sempre stroncata. Vedremo.
Al di là delle suggestioni di un allargamento dell’Atlantico, l’altra controversia innescata dal ritiro Usa riguarda la modalità con cui l’Occidente dovrebbe approcciarsi al rebus afghano.
C’è una guerra vera, sottotraccia, tra le due ipotesi in campo. La prima vede l’Occidente spingere perché il nuovo governo afghano eviti di allacciare rapporti politici ed economici con Cina e Russia, con la variante che il Paese possa diventare un hub per azioni destabilizzanti verso queste due potenze e i Paesi asiatici ad esse collegate.
La seconda prevede di affrontare il rebus afghano in coordinato disposto con Mosca e Pechino, passo foriero di opportunità reali per una distensione internazionale tra le tre potenze a proiezione globale.
La controversia sul tema ha oggi il suo focus sulla possibilità di dar vita a un G-20 sull’Afghanistan, o varianti sul tema (G-7 allargato a Mosca e Pechino etc.), oppure se limitarsi a un accordo tra i Paesi d’Occidente che includa, almeno tentativamente, alcuni Paesi asiatici, anzitutto India, Giappone e Pakistan, in modalità ancillare ai dettati occidentali.
Da questo punto di vista appare positivo il tentativo di Mario Draghi, che – in nome e per conto degli ambiti europei e americani che spingono in tale direzione -, dopo aver contattato Mosca, stamane ha tenuto una conversazione telefonica con Xi Jinping per rilanciare l’ipotesi del G-20.
La resistenza
Questa guerra segreta, ché di questo si tratta, s’intreccia con quella palese tra talebani e la resistenza del Panjshir, dove il figlio del mitico Ahmed Masoud, che al tempo fermò l’avanzata talebana nel Paese, si è riproposto di seguire le orme dell’omonimo padre, dando vita a una resistenza contro il nuovo governo.
Un’iniziativa che ha trovato supporto in quanti in America non hanno accettato il ritiro di Biden. Un supporto non solo morale, dato che il Washington Examiner spiega che i guerriglieri di Masoud hanno “comunicazioni regolari” con “l’equivalente afghano della Cia e dei Berretti verdi”, cioè di quelle frange della Sicurezza afghana gestite direttamente dall’Agenzia e dalle forze speciali Usa.
Ma le richieste di un aiuto ufficiale da parte degli Stati Uniti, avanzate dalla resistenza, sono cadute nel vuoto: d’altronde Washington non può trattare con il governo di Kabul, come sta facendo e, allo stesso tempo, aiutare i suoi oppositori armati.
Né sembra siano servite a molto le laudi sperticate di tale resistenza da parte di Bernard-Henri Lévy, il cantore delle guerre neocon, che ha speso la sua penna per legittimare tutte le nefandezze delle guerre infinite, dall’intervento in Afghanistan alla guerra in Iraq, dalla guerra libica a quella siriana.
Non si tratta di criminalizzare il figlio del grande generale Masoud, solo di dar conto della complessità del rebus afghano e delle tante possibili strumentalizzazioni di quanto vi accade.
E di osservare il tentativo di resistenza con la relatività del caso: se è pur vero che l’emirato afghano è prospettiva non rosea per la popolazione, provare a risolvere la questione con le armi non sembra la più appropriata, dato che non farebbe altro che prolungare l’interminabile conflitto afghano.
Detto questo, sembra che la resistenza abbia il fiato corto o addirittura, a stare ai comunicati dei talebani, che rivendicano di aver preso il controllo del Panjshir, sia già finita.
Masoud figlio non può contare sul supporto russo ed europeo che ebbe suo padre, né su quello cinese, alleato del Pakistan, che con i talebani ha rapporti proficui. Né, sembra, di quello turco, che sta trattando con Kabul.
Da qui le difficoltà di ricevere aiuti anche tramite Turkmenistan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan, strettamente collegati ai Paesi di cui sopra, confinanti con l’Afghanistan. E senza linee di rifornimento adeguate, organizzare una resistenza è arduo,
Insomma, il tentativo di Masoud ad ora appare velleitario, né sembra siano andati in porto i tentativi di un accordo con Kabul, pure avanzati, con relative controproposte rimaste segrete,
Così, nonostante alcune smentite, sembra aver credito il comunicato di vittoria dei talebani, che chiude questa variabile.
Resta dunque da vedere come andrà a finire la guerra vera, quella che si sta consumando negli ambiti di potere occidentali, tra quanti sostengono sia necessario trattare con Kabul in accordo con Cina e Russia e quanti sognano ancora di utilizzare questo straziato Paese nel Grande Gioco asiatico, utilizzandolo contro Pechino e Mosca.
Prospettiva che ha già perso, dopo tanti anni di inutile strage, ma alla quale tanti ambiti ancora non si rassegnano.