L'attentato al premier iracheno
Tempo di lettura: 3 minutiL’attentato al premier iracheno Mustafa al-Kadhimi del 7 novembre ha rischiato di precipitare Paese nel caos di una guerra civile, e con esso tutto il medio Oriente, dal momento che si sarebbe riaperto lo scontro diretto da sunniti e sciiti, con Teheran e Riad come poli antagonisti di una guerra per procura.
Per fortuna l’attentato, realizzato con un drone, non ha fatto danni eccessivi, devastando la residenza del premier senza fare vittime. Ma poteva egualmente precipitare il Paese nel caos, se fossero state confermate le accuse che, in maniera aperta o velata, erano state lanciate contro le milizie sciite filo-iraniane presenti nel Paese.
Accuse che si fondavano su due elementi: il fatto che l’attentato fosse stato realizzato in maniera analoga agli attacchi che tali milizie avevano condotto in passato contro obiettivi americani e che le stesse stavano contestando in maniera accesa l’esito delle recenti elezioni, che le ha viste perdenti e che esse ritengono viziate da brogli.
Lettura un po’ semplicistica di uno scenario molto più complesso come quello iracheno, nel quale si muovono tanti attori contrastanti, tra i quali gli agenti dell’Isis, che quelle milizie hanno contribuito non poco a riportare alla clandestinità, entrando in gioco quando il Terrore aveva ormai conquistato tutto il territorio iracheno, spingendosi fino alle soglie dell’Iran.
Tanto che a escludere l’ipotesi che l’attentato sia opera delle milizie filo-iraniane è anche un cronista di Haaretz, media che non risparmia critiche a Teheran, anzi.
Così Zvi Bar-el sul media israeliano: “Anche il fatto che Esmail Ghaani, comandante della forza Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane, lunedì sera si sia precipitato a Baghdad per incontrare i comandanti della milizia non è un caso”.
Infatti, “gli scontri violenti ora non servono gli interessi di Teheran, che sta cercando di costruire una coalizione politica filo-Iran per formare un governo. Ciò sembrerebbe vanificare la logica del tentato omicidio [da parte delle milizie sciite ndr], a meno che l’obiettivo non fosse quello di scatenare una guerra civile o quanto meno violenti scontri a livello nazionale, che potessero favorire la formazione di un governo provvisorio di emergenza. Ma anche se questo fosse il motivo, né le milizie né l’Iran avevano alcuna garanzia che avrebbero ottenuto un risultato politico che sarebbe servito ai loro obiettivi”.
Si potrebbe aggiungere che poco prima dell’attentato l’Iran aveva annunciato che avrebbe ripreso i colloqui con gli Stati Uniti per cercare di trovare un accordo sul nucleare, dopo un lungo silenzio sul tema che aveva fatto concludere a molti osservatori che Teheran non fosse più interessata a trattare.
Se fosse esploso un conflitto tra sunniti e sciiti in Iraq, il tavolo delle trattative sul nucleare sarebbe saltato e Teheran non avrebbe avuto più alcuna speranza di veder sollevate le sanzioni che la stanno strangolando.
Anche gli Stati Uniti sono stati cauti sull’accaduto: in una conversazione telefonica con il primo ministro iracheno, il Segretario di Stato Anthony Blinken, condannando l’attacco, ha espresso la vicinanza e il supporto dell’America, attestandosi ad attendere l’esito delle indagini svolte dagli iracheni, resistendo alle pressioni per accusare l’Iran.
Nel riferire la notizia, e nell’accusare Teheran, il Washington Post riferiva le parole del portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh: “Tali ‘incidenti sono in linea con gli interessi delle parti che hanno violato la stabilità, la sicurezza, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Iraq negli ultimi 18 anni”. Ovviamente, il giornale Usa ha rigettato come infondate le implicite accuse rivolte all’America da Khatibzadeh.
Detto questo, anche le accuse di Teheran verso lo storico antagonista sono state meno accese del solito, perché in realtà sia il governo iraniano che l’amministrazione Usa vorrebbero concludere l’accordo sul nucleare. Pertanto ambedue sono interessate, almeno al momento, a evitare che l’Iraq precipiti nel caos.
A margine di questa nota, vogliamo registrare un altro cenno che va nella direzione di un qualche spiraglio di distensione in Medio oriente, ovvero la visita del ministro del ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Abdullah bin Zayed in Siria, dove ha incontrato il presidente Assad,
Nel riferire la notizia, la Reuters scrive che si tratta di un “segno del miglioramento dei legami tra Assad e uno stato arabo alleato degli Stati Uniti che un tempo sosteneva i ribelli che cercavano di rovesciarlo”. Non è poco.